23 Febbraio 2018
Internazionale

Il movimento #MeToo deve andare avanti

di Rebecca Solnit

 

Questa storia è andata troppo in là. Ha terrorizzato tante persone, le ha allontanate dal loro posto di lavoro, gli ha messo addosso la paura di far sentire la loro voce e le ha punite per aver parlato. Mi riferisco alla misoginia e alla violenza contro le donne (e contro le ragazze, gli uomini e i ragazzi, e per­no i bambini). La rivolta del movimento #MeToo è un tentativo di affrontare un fenomeno antico. E se per caso avete dimenticato quant’è grave la situazione, andate a visitare la mia banca dati preferita: l’ufficio statistiche giudiziarie del ministero della giustizia statunitense. Lì scoprirete che nel 2016, secondo le stime, ci sono stati 323.450 stupri o aggressioni sessuali, e sono stati denunciati più di un milione e 109mila episodi di violenza domestica. Alla polizia sono stati segnalati meno di un quarto degli stupri e poco più di metà degli episodi di violenza domestica. Circa tre milioni di stupri nell’arco di dieci anni sono tanti. E comunque si tratta di una stima prudente. Vediamo ora alcuni dati dei Centri per la prevenzione e il controllo delle malattie, non molto aggiornati ma ancora illuminanti. La violenza domestica costa agli Stati Uniti più di otto miliardi di dollari, per lo più in servizi sanitari e di salute mentale. Queste violenze fanno perdere ogni anno alle loro vittime più di otto milioni di giornate di lavoro pagate. “Quasi il 14 per cento delle donne e il 4 per cento degli uomini hanno riportato lesioni causate dalla violenza domestica, che comprende la violenza sessuale, la violenza ­fisica o lo stalking”, si legge nel rapporto. Quella che invece non è arrivata abbastanza lontano è l’ultima ondata di reazioni a questa brutalità, nota con gli hashtag #MeToo e #TimesUp. Il movimento sarà arrivato lontano quando non saremo più una società in cui il 75 per cento dei lavoratori dipendenti non denuncia molestie e il 75 per cento di chi le denuncia subisce ritorsioni. Questi numeri significano che solo un quarto di un quarto delle vittime di molestie, cioè una su 16, ottiene giustizia. Il movimento #MeToo sarà arrivato abbastanza lontano quando una donna su quattro non subirà più molestie sul posto di lavoro, quando una su tre non sarà importunata nell’industria della ristorazione, quando l’80 per cento delle lavoratrici agricole e una percentuale enorme delle donne nelle forze armate non saranno più molestate (succede anche agli uomini, ma meno di frequente). Il movimento sarà arrivato abbastanza lontano quando non esisteranno più realtà come l’università privata Tulane di New Orleans, dove più del 40 per cento delle ragazze e il 18 per cento dei ragazzi hanno subìto aggressioni sessuali, e dove un quarto delle ragazze e il 10 per cento dei ragazzi sono stati violentati. Il #MeToo sarà arrivato abbastanza lontano quando lo stupro non sarà più un problema nei campus universitari, quando le scienziate non saranno più allontanate dal posto di lavoro o dai centri di ricerca perché, come si legge in un recente articolo di Science Friday, “il 26 per cento delle ricercatrici ha denunciato aggressioni durante le ricerche sul campo e un altro 71 per cento ha denunciato molestie”. Il movimento sarà arrivato abbastanza lontano quando considereremo i livelli di violenza sessuale e di genere, la pervasività delle molestie e la mancanza di risposte adeguate come gli orribili ricordi di un brutto tempo andato. Chi critica il movimento #MeToo si concentra sui casi in cui sono ­finiti nello stesso calderone anche uomini che avevano commesso reati minori o reati non confermati o non chiariti, oppure quando sembra non esserci stato un processo giusto. Non è certo il femminismo né sono le donne intese come categoria a prendere le decisioni. Le prendono dirigenti e manager, spesso maschi, che hanno fatto ­finta di non vedere ­finché non sono scoppiati gli scandali. C’è ancora molto da fare per affrontare meglio il problema, e nessuno merita di essere accusato o punito ingiustamente, esattamente come nessuno merita di essere violentato. Nessuno merita di essere ingiustamente allontanato dal posto di lavoro o dalla professione e, quando protestiamo se capita agli uomini sotto la luce dei riflettori, faremmo bene a ricordare quanto spesso sia capitato alle donne. Ma che l’epidemia venga affrontata è un bene, e non dobbiamo mai perdere di vista la gravità dei torti che questo movimento, rivolta, chiamatelo come volete, vuole riparare. Non sono troppi solo quelli che commettono le violenze ma anche quelli che le permettono: da chi ignora le accuse o licenzia le persone che denunciano, a chi protegge i potenti, in particolare gli avvocati, le forze dell’ordine e le persone che mettono a tacere le vittime. Pensate al resoconto fatto un anno fa da Susan Fowler sul lavoro a Uber. A Fowler e alle altre donne che avevano denunciato lo stesso molestatore l’azienda ha risposto che l’uomo non avrebbe subìto alcuna conseguenza perché era incensurato. A Fowler è stato detto che, nel caso avesse scelto di restare nella stessa squadra del molestatore e avesse ricevuto valutazioni negative, non doveva pensare a una ritorsione. Pensate quanto sono stati giustificati e difesi i due dipendenti della Casa Bianca che di recente hanno dovuto lasciare il posto di lavoro perché si è saputo che picchiavano le mogli. La cura non è il castigo dei colpevoli, anche se un po’ di timore delle conseguenze potrebbe far bene a chi commette abusi e garantire più sicurezza a chi li subisce. La cura è la trasformazione culturale, che è in corso da mezzo secolo. Come ho scritto sul Guardian a ottobre: “Il cambiamento che conta davvero sarà eliminare il desiderio di fare certe cose, e non solo la paura di farsi beccare”. È utile ricordare quanta strada abbiamo fatto, partendo da una società che non considerava un problema la discriminazione contro le donne né qualcosa che dovesse avere conseguenze giudiziarie; che non faceva niente contro le violenze domestiche; che troppo spesso addossava alle vittime la colpa dello stupro; che non riconosceva come reali gli stupri che le donne subivano dai ragazzi con cui uscivano, dai conoscenti, dai mariti. Le molestie sessuali sul posto di lavoro, una categoria creata dalle femministe negli anni settanta, continuano a essere molto diffuse. Si banalizzano le molestie, definendole commenti di cattivo gusto e approcci indesiderati. Ma nella categoria rientrano anche l’aggressione, il costringere una dipendente ad avere un rapporto sessuale se vuole tenersi il posto o licenziarla se si rifiuta di fare un pompino. Secondo le statistiche negli ultimi decenni c’è stato un calo significativo degli stupri e delle violenze domestiche. In un certo senso è incoraggiante, in un altro no, perché ognuno di quei crimini danneggia qualcuno e ne avvengono ancora tanti, al punto che si potrebbe quasi parlare di un’epidemia. Attenzione: non ho neanche accennato alle morti causate dalle violenze domestiche, che negli Stati Uniti sono molte ogni giorno, né l’altra epidemia – quella delle stragi con armi da fuoco – che ha molti legami con la violenza domestica. A volte penso che se stiamo vivendo questo momento straordinario in cui tante storie vengono a galla è grazie al lavoro lento e silenzioso fatto dal femminismo in questi ultimi decenni per mettere molte donne in posizioni di potere, e per far in modo che molti più uomini si rendessero disponibili ad ascoltare le storie delle donne e affidarsi di quelle che le raccontavano. In molti casi si tratta di storie vecchie. E se non sono state raccontate prima c’è un motivo. Forse vengono raccontate ora perché oggi ci sono più donne che fanno le caporedattrici nei giornali o le producer in televisione, che sono giudici o giurate (un tempo le donne non potevano far parte di una giuria in tribunale), e che occupano posizioni di vertice nelle aziende, negli studi legali, al congresso. E ci sono più persone che credono alle donne e che pensano che i loro diritti contino. L’altro giorno un’amica mi ha raccontato un fatto commovente sul modo in cui vengono selezionate le giurie dei tribunali. Quando si fanno le domande di routine prima di un processo per reati sessuali, oggi rispetto a tempo fa le risposte sono diverse. Di solito, alla domanda se fossero mai state stuprate o avessero subìto abusi, poche delle potenziali giurate e dei loro familiari alzavano la mano. Poi facevano qualche ammissione, ma in privato. Invece in un processo di selezione recente i due terzi delle persone hanno alzato la mano e raccontato la loro storia in tribunale, in modo che tutti potessero sentirle. Qualcosa sta cambiando. Nel 2014, quando 43 studenti maschi messicani sono stati rapiti e probabilmente uccisi nella città di Iguala, circolava questa frase: “Hanno provato a sotterrarci, ma si sono dimenticati che siamo dei semi”. Annaffiati con le lacrime, quei semi cominciano a germogliare. Sono brutte storie: raccontarle è doloroso, giudicarle è un processo che dobbiamo ancora perfezionare, ma quello che vuole questo movimento è lasciare che  delle vite umane fioriscano, libere dal dolore e dalla paura. La segretezza, il silenzio e la vergogna permettono che le violenze continuino. Poi quelle stesse forze puniscono le vittime una seconda volta, isolandole e lasciando che le loro storie rimangano sottoterra. Raccontandole, diciamo invece al mondo che quello che è successo non doveva succedere. Molte di quelle storie si raccontano proprio per impedire che altre diventino vittime, per mettere fine all’impunità dei carnefici. Bisogna continuare ad accendere i riflettori su quei delitti fino a quando non sarà più necessario perché questi fatti saranno diventati rari. E perché ci sia un processo giusto e immediato. Solo allora saremo andati abbastanza in avanti.

(Internazionale, 16 febbraio 2018)

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