10 Giugno 2016
Internazionale

Il neoliberismo è morto

di Mark Schieritz

Le ideologie muoiono senza far rumore.

Quando suona la loro ora, vengono scaricate di soppiatto, senza fare domande scomode. È quindi ancora più sorprendente che il neoliberismo, una delle più potenti ideologie del dopoguerra, sia stato ufficialmente accompagnato alla tomba. Com’è successo? Il Fondo monetario internazionale (Fmi) ha ammesso che l’azione delle forze del mercato in molti casi non ha rafforzato l’economia come si sperava, ma al contrario l’ha indebolita (lo sostengono tre dei principali economisti dell’Fmi – Jonathan D. Ostry, Prakash Loungani e Davide Furceri – in un articolo scritto per la rivista dell’istituto). A questo va aggiunto che l’Fmi è proprio l’istituzione che con più zelo si è adoperata per il libero mercato. Per l’Fmi prendere le distanze dal neoliberismo è un po’ come per i Verdi rinunciare all’ecologia o per il papa ripudiare il cattolicesimo.

Di fatto nessuno crede più alle promesse della rivoluzione neoliberista, che ha trionfato sotto Ronald Reagan e Margaret Thatcher e ha lasciato il segno in Germania con le riforme dell’Agenda 2010 e la deregolamentazione finanziaria. Dopo quasi trent’anni di politica neoliberista l’economia mondiale è in stato di crisi permanente, le persone comuni hanno pagato il conto delle speculazioni avventate dell’élite finanziaria e il divario tra ricchi e poveri è aumentato in quasi tutti i paesi industrializzati.

È il momento di prenderne atto.

In linea di principio l’idea di liberare le forze del mercato non era affatto malvagia.

Già Karl Marx conosceva il potenziale emancipatorio del modo di produzione capitalistico, in cui “si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile”. Milioni di persone in Asia sono uscite dalla povertà e oggi in Germania il mercato del lavoro offre alle donne molte più opportunità rispetto a vent’anni fa. Questi dati non sono mai citati nelle leggende sui bei tempi andati.

Il neoliberismo è diventato un’ideologia quando i suoi esponenti hanno cominciato a sentirsi i predicatori di un insegnamento salvifico che non poteva più essere messo in discussione. Anche la politica ha fatto la sua parte. Si è lasciata abbagliare dall’arroganza invece di trattare la teoria neoliberista per quello che è: uno tra i tanti possibili punti di vista sul mondo. Nel frattempo l’esperienza ne ha dimostrato i limiti in modo convincente.

Con la crisi finanziaria i neoliberisti – e più in generale gli economisti – hanno molte meno possibilità di fare affari, avendo perso il loro posto privilegiato in prima fila.

Ora vorrebbero riaverlo, ma farebbero bene a valutare se il fatto che i broker trasferiscano miliardi in giro per il pianeta può davvero contribuire al benessere generale. Anche il mercato è fatto di persone, per questo ha bisogno di regole.

Gli interessi della società

Sarebbe tuttavia sbagliato credere che il fallimento del neoliberismo coincida con il fallimento dell’economia di mercato. È fallita una forma specifica dell’economia di mercato, che non prende in considerazione gli interessi della società. Ci sono paesi – come la Francia – che potrebbero tranquillamente sopportare un pizzico di mercato in più. Negli Stati Uniti, invece, andrebbe progressivamente individuato un punto oltre il quale un’ulteriore ritirata dello stato non aiuterebbe a liberare i cittadini, ma creerebbe solo nuovi vincoli.

Forse proprio questa ambivalenza permette un confronto produttivo con la questione del giusto rapporto tra stato e mercato.

Ci sono indizi in questa direzione: gli economisti collaborano con storici e neuroscienziati per imparare dal passato e conoscere meglio il comportamento umano. In Germania è al potere una cancelliera che si era presentata come una riformatrice dell’economia e che oggi approva il salario minimo ed è disposta a cancellare i debiti della Grecia. Dalle macerie del neoliberismo spuntano fiori inattesi.

Dove ci porterà tutto questo? Difficile dirlo. Ma la svolta dell’Fmi è in ogni caso una buona notizia. L’economia è l’arte di arrangiarsi con risorse scarse, quindi gli economisti potrebbero dare il loro contributo per la soluzione dei maggiori problemi del ventunesimo secolo, come il cambiamento climatico, la demografia e le migrazioni.

A patto che si mettano in discussione.

L’autocritica dell’Fmi mostra per lo meno che il sistema è in grado di correggersi. E le persone?

((Mark Schieritz, Die Zeit, Germania, “Internazionale”, 10 giugno 2016, n. 1157))

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