24 Luglio 2014
la Repubblica

Il no di 50 riservisti, in maggioranza donne

di Vanna Vannuccini

A una delle tante piccole manifestazioni alle quali partecipano per le strade di Tel Aviv o di Haifa qualche centinaio di persone per protestare contro la guerra a Gaza — sono artisti, arabi-israeliani e pacifisti — lui non manca mai, spesso con la figlia di appena un anno sulle spalle. È l’ex pilota Yonathan Shapira. La sua vita cambiò radicalmente dodici anni fa, quando era un pilota delle Air Force, e sganciò una bomba “mirata” su un terrorista di Hamas. Insieme al terrorista morirono quindici persone, tra cui nove bambini.

Poco tempo dopo, lui e i suoi compagni di missione scrissero una lettera per dire che rinunciavano al servizio militare. Furono immediatamente sospesi dall’esercito e diventarono dei paria. Nella società israeliana le Forze Armate sono sacre. Non criticare l’esercito è l’undicesimo comandamento. In tempo di guerra è visto dalla maggior parte della popolazione come un tradimento. Ma oggi la voce di Yonathan Shapira e dei suoi pochi compagni di protesta ha trovato un’eco. Cinquanta riservisti hanno fatto sapere di aver rifiutato di servire nella riserva. Il servizio nella riserva è obbligatorio in Israele fino grosso modo ai 50 anni per gli uomini, fino ai 35 per le donne, e fa parte dell’ethos nazionale. Poco prima dell’operazione “Protective Edge” il governo ha deciso la mobilitazione di quasi 70 mila riservisti. In una lettera pubblicata dal Washington Post, che pubblica le cinquanta firme, i riservisti, dei quali una maggioranza donne, scrivono di aver servito finora in ruoli burocratici e logistici, non in ruoli di combattimento, ma di aver capito che anche in quei ruoli si rendevano strumenti «di oppressione »: perché «le Forze Armate contribuiscono all’oppressione ». «Le truppe che operano nei territori occupati non sono le sole che controllano le vite dei palestinesi. Tutte le Forze Armate sono coinvolte in questa oppressione. Per questo rifiutiamo di servire nella riserva e sosteniamo tutti coloro che faranno altrettanto». «Il ruolo centrale dell’esercito», scrivono ancora, «è la ragione dell’assenza di argomenti reali a favore di soluzioni non militari al conflitto. L’operazione militare a Gaza e il modo in cui la militarizzazione influenza la società israeliana sono inseparabili». E ancora: «Israele non è più capace di pensare ad una soluzione politica del conflitto se non in termini di potenza fisica: non stupisce dunque che il paese sia sottoposto a cicli infiniti di violenza mortale. E quando i cannoni sparano, nessuna critica deve essere sentita». Infine: «Deploriamo la militarizzazione di Israele». Un’altra trentina di riservisti, secondo il Jerusalem Post, si sono rifiutati ieri sera di entrare a Gaza a bordo di un vecchio blindato del tipo che gli americani usavano in Vietnam, uguale a quello in cui persero la vita sabato sette soldati quando il blindato dovette fermarsi per un’avaria e fu colpito da un missile anticarro.

La lettera dei 50 riservisti ha fatto scalpore quanto le parole amare scritte da Gideon Levy su Haaretz prima ancora che cominciasse l’operazione di terra: «Sono i nostri giovani più brillanti che diventano piloti, i migliori piloti che ora perpetrano i delitti più crudeli, più ignobili. Mentre scrivo hanno già ammazzato 200 civili e feriti più di mille. Sono quelli che non si sporcano le mani come i poliziotti di frontiera che picchiano i bambini, i soldati della Brigata Kfir che stanno ai checkpoint o quelli della Brigata Golani che perquisiscono le case. Non insultano, non umiliano. Sono i piloti dell’esercito più morale del mondo ». Così scriveva Levy qualche giorno fa. Nel frattempo, i numeri da lui citati sono almeno triplicati.

«Non si può chiudere un milione e ottocentomila persone e pensare che non reagiscano», dice Yonathan Shapira applaudito dai manifestanti. La guerra contro Gaza è sbagliata: «Ogni popolo ha il diritto di difendersi e gli istraeliani dovrebbero essere i primi a saperlo». Shapira non è nemmeno per la soluzione dei due Stati: dovrebbe esserci «un solo Stato per tutti in cui ognuno abbia gli stessi diritti e possa vivere liberamente». «Ci vorrebbero dei leader politici coraggiosi e non ci sono», dice a sua volta lo scrittore Meir Shalev. «Se questa guerra non finirà con un negoziato vero, tra due anni saremmo daccapo, e anche questo nuovo massacro sarà stato inutile».

 

(la Repubblica, 24 luglio 2014)

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