30 Giugno 2015
Miopia online

Il posto vuoto di Dio, una lettura

di G. R.

 

Il posto vuoto di Dio, a cura di Luisa Muraro e Adriana Sbrogiò, Marietti, 2006

(Testi di Marco Cazzaniga, Gabriella Cimarosto, Elsa Confortin, Luisella Conti, Livio Dal Corso, Gianni Ferronato, Luisa Muraro, Tilde Silvestri, Rosetta Stella, Marisa Trevisan, Carla Turola, Natalina Zanatta)

«Il senso del libro è semplice da dire. Le donne e gli uomini che ci hanno lavorato e lo firmano, si sono ritrovati più volte, liberamente, per parlare di sé e del mondo nel loro linguaggio abituale ma senza escludere “Dio”, come parola e come pensiero» (Luisa Muraro, dalla prefazione).

 

Le persone che vediamo agire nelle pagine di questo libro fanno, in certo modo, filosofia in un senso antico del termine: c’è una tensione per la conoscenza, per la verità, che non si sviluppa solo nelle speculazioni solitarie di una mente, ma nel dialogo, nel confronto interpersonale. Una parte di questo gruppo di donne e uomini ha conoscenze filosofiche e teologiche “professionali”, per formazione accademica e/o per appartenenza a un ordine religioso, ma alla ricerca partecipano tutte/i a partire dalla propria esperienza

Il primo capitolo è dedicato al dibattito sviluppatosi tra il 2003 e il 2005, nell’ambito dell’associazione Identità e differenza di Spinea (1).

La scintilla della discussione fu uno scambio verbale (riportato nel testo) avvenuto durante un convegno tenutosi ad Asolo nel 2002, in cui una sessantina di donne e uomini si erano riuniti «per parlare dei rapporti tra mondo femminile e mondo maschile».

Natalina Zanatta, una suora dorotea impegnata a fondo in una comunità con ragazzi «che vengono dal mondo della droga, alcool, prostituzione, carcere», in un forte intervento-testimonianza parlò del vantaggio che, per le donne come lei appartenenti a un ordine religioso, deriva dall’essere in una «relazione di non necessità affettivo-sessuale con il maschile». Parlando poi delle ragazze di cui si stava occupando, indicò come un loro problema fondamentale fosse la dipendenza patologica dal maschio. Si avverte come un punto di contatto tra la situazione di quelle ragazze e l’esigenza di libertà femminile che Zanatta rivendica per sé e per le altre suore. Non a caso, subito dopo, troviamo la denuncia dell’«assoggettamento del mondo religioso femminile al mondo religioso maschile, in tutte le sue espressioni […] Ci siamo rese conto che, se tu tocchi i privilegi del maschio che si dice, appunto, garante del sacro, si scatena una guerra».

Il modello di autonomia proposto alle ragazze è in qualche modo analogo a quello che Zanatta aveva auspicato per le suore: «il cammino che continuiamo a voler fare è questo: portare a noi la nostra vita, tenerla, essere bastanti a noi stesse; Fabia e io poi aggiungiamo il “Dio solo mi basta”, come una realtà che ci appartiene in modo fondamentale».

Seguì un intervento di Luisa Muraro, che contestò Zanatta su due punti. Il primo riguardava la pretesa di autosufficienza, l’io mi basto, che esclude la relazione.

Il secondo punto riguardava quel Dio “che ci appartiene”, come se fosse una prerogativa delle persone ordinate: «E poi [Natalina] ha fatto torto a Dio. Io non so se Dio esiste, ma se esiste e qualunque cosa voglia dire questo nome, Dio vuole entrare nella vita di ciascuno e di ciascuna. Non sta ad aspettare le scelte di Tizio e di Caio».

Zanatta si difese, precisando che se aveva parlato di autonomia era stato nel senso di non voler ricadere in una situazione di sudditanza; ma accolse le critiche, soprattutto in riferimento alla “doppia misura” nel rapporto con Dio ed espresse il desiderio di aprire un dibattito.

E dibattito fu, a partire dall’idea lanciata da Muraro in quella sede, riguardo al “posto vuoto” da lasciare libero, da non occupare con altro quando la parola-pensiero “Dio” non ha più circolazione: un’idea che si richiama, come preciserà poi la stessa Muraro, a un passo di Teresa di Lisieux.

Sia nel corso del dibattito sia nelle lettere e negli interventi individuali raccolti nella seconda parte del libro, i partecipanti al gruppo raccontano la propria esperienza religiosa, le eventuali crisi e conflitti con la Chiesa istituzionale, la propria idea di Dio, l’economia di questa nella propria vita.

Emergono presto differenze tra il pensiero delle donne e quello degli uomini.

La “questione” della differenza sessuale è ben presente nella coscienza delle donne e degli uomini dell’associazione. Ne parla per esempio Adriana Sbrogiò in Presentazione del gruppo: «si tratta di una differenza che fa problema e viene sottintesa, svilita, cancellata… Noi invece vogliamo significarla e quindi cerchiamo ed usiamo parole che la esprimano».

Negli interventi delle donne, Dio (o il divino, come qualcuna preferisce dire a volte) è strettamente associato all’amore, quando non è addirittura un suo sinonimo.

«Voglio raccontarvi che quando ho visto per la prima volta mia figlia Chiara, la prima nata, ho avuto la certezza dell’esistenza di Dio […] la stessa sensazione l’avverto anche adesso quando capisco l’amore che lega le persone tra loro» (Luisella).

«Il divino lo percepisco nei momenti di comunicazione profonda e di appagamento nella relazione con le persone umane, in particolare con le donne. È divino, per me, il piacere che provo nel darmi da fare per la vita, nella cura per la vita» (Elsa).

Semplificando, sembra prevalere tra le donne del gruppo una posizione “immanentistica”: Dio è qui e ora, nella relazione che ho con te, nello scambio, nella compassione e nella solidarietà. Il primato dell’amore è professato, con accenti diversi, anche dalle suore del gruppo, da Natalina in primo luogo.

 

Gli uomini del gruppo appaiono forse un po’ sconcertati dall’atteggiamento vitalistico, diretto, delle donne. Il loro approccio al divino si appoggia di più a una teologia razionale e a un senso finalistico del rapporto di Dio con la Storia umana. Hanno una maggiore tensione per la trascendenza, mentre per le donne «l’amore trascende da solo» (Adriana), ovvero, non c’è bisogno di trascendenza.

Quegli uomini sono però da tempo in qualche rapporto con il pensiero femminile della differenza e quindi si sforzano di comprendere le parole delle donne e di individuare la propria differenza ed eventualmente anche i propri limiti. Così, per esempio Gelindo: «In questo vostro contrasto emerge che l’uomo rispetto alla donna cerca sempre un andare più avanti rispetto alla condizione del momento. Non partecipa sufficientemente a quello che si svolge nell’attualità […] vede e apprezza molto meno il raggiunto, l’attuale […] Credo proprio che qui giochi la differenza sessuale».

C’è un corsivo delle curatrici del libro in cui si precisa la posizione del pensiero femminile della differenza nel contesto del femminismo e mette in guardia, allo stesso tempo, circa un possibile cattivo uso della differenza, che può finire per coincidere con i “vecchi stereotipi”.

Nel libro, nessuna e nessuno cade in vecchi stereotipi. Tuttavia non riesco a liberarmi dall’impressione che il ricorso alla differenza da parte degli uomini vada a volte nel senso di una chiusura del discorso, più che di una sua apertura. Forse questa è la differenza… Forse è la mia identità maschile… Come se la differenza sessuale fosse un dato del tutto congenito o l’ultimo muro dietro cui ripararsi di fronte al rischio di una destrutturazione dell’identità, del ruolo, della personalità.

Secondo me, sono proprio gli strumenti intellettuali e il modo con cui gli uomini affrontano i problemi in questa discussione, a mostrare in che misura sia “culturale”, costruita, strutturata l’identità maschile.

 

Emergono poi anche altre differenze, riguardanti non solo il pensiero, ma le scelte effettive di vita, il come uno/una si spende nel mondo.

Penso soprattutto a queste suore, alla loro dedizione totale alla carità, alle enormi difficoltà che affrontano. Raccontano le loro storie in poche parole: vedi gli interventi e le lettere di Natalina Zanatta, la lettera di Tilde Silvestri. Lo fanno senza ostentazione né vittimismo, e tanto più colpiscono la solitudine di certi momenti, quel loro agire senza appoggi e senza rete, e anche le umiliazioni a cui si trovano esposte dal momento in cui scelgono di uscire nel mondo vestendo l’abito: le scaramanzie, il dileggio da parte di persone che forse scaricano su di loro (proprio perché donne, proprio perché appaiono come l’anello più debole della Chiesa) un rancore storico verso la struttura ecclesiastica.

Gli uomini, pur non esenti da crisi sofferenze e conflitti, sembrano muoversi di più in un sistema di sicurezze sociali. Lo ammettono con lucidità, anche se con altre parole, in alcuni punti del libro. Così, dopo che il gruppo ha letto una lettera di Natalina, scritta in un difficile periodo di malattia e il cui oggetto centrale è l’esperienza di Dio senza mediazioni e la sintonia che solo può dare «la passione amorosa», Marco dice di sentire «una sorta di richiamo» per la prospettiva data dall’esperienza mistica, ma dichiara al contempo «il timore di andarci dentro, di essere preso» perché non saprebbe più come gestire i doveri e le necessità della vita quotidiana. Gli fa eco Gelindo: «come diceva Marco, quando intravvedo ed intuisco qualcosa, ho paura che Dio mi prenda in parola e mi porti a conseguenze coerenti, da cui finirei per tirarmi indietro».

 

Come detto, la seconda parte del libro raccoglie lettere e interventi individuali. Ognuno di essi offre spunti di riflessione che meriterebbero di essere raccolti. Qui non posso che limitarmi ad alcuni accenni.

In Desiderio di Dio Marco Cazzaniga, pur difendendo la necessità di valori universali e una tradizione che non si sente di accantonare, fa un caldo riconoscimento dell’apporto e dell’importanza del femminile, nella persona di Adriana in primo luogo: «Lei riesce a comunicare e a realizzare il suo desiderio d’amore più di quanto io ne sia capace e me lo insegna anche. […] Sono stato educato a diffidare della donna, oltre che come tentazione per gli impulsi sessuali, anche come distrazione dall’amore per tutti e, in concorrenza con Dio, dall’amore totale per Lui».

In realtà, conclude Marco, l’incontro con Adriana ha significato una maggiore libertà interiore e condizioni più favorevoli per la stessa crescita spirituale.

Adriana e Marco sono gli unici ad aver partecipato in coppia al gruppo di discussione. Hanno la fortuna di essere legati da un affetto coniugale e di avere, nello stesso tempo, passioni culturali ed esistenziali che si possono esprimere in un contesto condiviso. I loro scambi nella discussione risultano particolarmente vivaci: efficaci, direi, anche come stimolo al pensiero degli altri.

In Mia mamma per un verso, Gesù per un altro Adriana racconta come la sua fede sia legata a sua madre (tema che le è molto caro) ma anche al “piccolo” Dio di altre persone della sua infanzia. In questo brano amplia poi il suo modo libero di trattare anche la teologia esprimendosi per apparenti paradossi, come quando dichiara un grande amore per la figura di Gesù Cristo, lieta però, in quanto donna, di non essere stata «obbligata, come predicavano i preti, a diventare come Gesù».

A chi può ascoltarla, per parlare di una sua vicina, Alba, uccisa dal marito è una testimonianza in cui Tilde Silvestri, Suora stimmatina, parla della violenza sulle donne nel quartiere della periferia romana, in cui opera. È uno dei brani del libro che danno l’opportunità di conoscere l’operato di donne che hanno fatto scelte forti di dedizione a favore degli ultimi.

Infine, A Adriana, sul verbo “amare” e altre cose è un brano in forma epistolare in cui Rosetta Stella scrive parole bellissime sull’amore, il corpo, la morte e l’impermanenza.

 

Non conoscevo Il posto vuoto di Dio. Mi è stato segnalato da Adriana Sbrogiò, che ha avuto anche la gentilezza di spedirmelo nell’isola lontana in cui vivo. Adriana mi ha inviato anche, via mail, una serie di recensioni uscite dopo la pubblicazione del libro. In alcune di esse ho visto riflesse emozioni simili a quelle che anch’io ho provato, una specie di allegria nel leggere di un gruppo che si riunisce e discute con passione di cose essenziali e che vanno oltre l’affanno quotidiano del vivere e sopravvivere.

Mi ha sorpreso invece imbattermi in alcuni giudizi che tacciano di new age alcuni aspetti del libro: un’interessante coloritura agli occhi della critica benevola, una tendenza pericolosa agli occhi della critica più ortodossa. Mi ha sorpreso, perché mi sembra che il libro vada veramente in tutt’altra direzione, a meno che non si includano nella categoria new age il femminismo, il pensiero della differenza, la carità senza riserve, l’amore, la discussione sul misticismo.

Ovviamente non posso sapere cosa intenda esattamente per new age chi usa questa espressione. A me, usata in questo senso negativo, fa pensare a mantra recitati con il sottofondo di “musiche di rilassamento”, a un linguaggio che nomina un po’ troppo le “buone vibrazioni” e via dicendo.

Di tutto questo mi pareva che non ci fosse l’ombra nel libro, però ho ripercorso il testo per vedere se mi era scappato qualcosa.

Mi sono chiesto se la pietra dello scandalo non stesse nell’intervento Gratis di Gianni Ferronato, dove per esempio si legge: «È pensabile che il sentimento religioso venga sostituito da quell’altro sentimento affine che è quello dell’interdipendenza di tutti gli esseri umani e di tutti gli esseri viventi della terra? […] questo passaggio che vedo delinearsi verso un’umanità più marcata da impronte asiatiche che con il Buddismo e la tradizione cinese ci mostrano che si può vivere anche a prescindere da Dio».

Non so. Qui c’è solo un accenno pacato all’esistenza di grandi tradizioni religiose (che non hanno niente di new) estranee alle religioni del Libro, e a una loro possibile attualità.

 

Nota: 1) L’Associazione Culturale “Identità e Differenza” di Spinea (VE) è attiva dalla fine degli anni 80. Ha un proprio sito web, in cui è possibile trovare la sua storia e un’ampia documentazione delle attività svolte.

 

(gasparastampa.es, giugno 2015)

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