18 Marzo 2014
il manifesto

Il puzzle e il rischio

di Rita di Leo

 

L’esito del refe­ren­dum ripro­pone il puzzle ucraino nella sua com­ples­sità. E, men­tre scri­viamo, ecco le ombre di un con­fronto che rischia di essere armato, tra annunci di Kiev all’«uso della forza» per rispon­dere a gravi inci­denti bel­lici alla frontiera.

È un puzzle con due piste, e ambe­due por­tano al tempo che fu. La prima, tanto a cuore ai mass media occi­den­tali, è il ritorno alla guerra fredda. La respon­sa­bi­lità è di Putin, il quale vuole rico­sti­tuire l’impero sovie­tico e annet­tersi popoli e terre, persi per colpa di Gor­ba­chev e di Yel­tsin. Usando il rubi­netto del gas dap­prima e poi chissà per­sino le armi. In Geor­gia lo ha fatto con suc­cesso. E altret­tanto nel Cau­caso. E per­ché no in Ucraina, comin­ciando dalla Cri­mea? È dif­fi­cile capire sino a che punto cre­dano a una tale let­tura i poli­tici che con­tano – Obama, Mer­kel, Xi –. Il vec­chio Kis­sin­ger no: per lui Putin è uno sta­ti­sta poli­tico con una stra­te­gia che ha il con­senso del paese. Il lea­der russo vuole uno stato-nazione, rico­no­sciuto come la nuova potente Rus­sia. Per lui non deve più acca­dere come nel primo decen­nio dalla fine dell’Urss, quando l’America e l’Europa si pre­sero con l’avversario scon­fitto, mille sod­di­sfa­zioni in poli­tica interna e in poli­tica estera.

Dopo 74 anni di paure si erano con­vinte che la Rus­sia era un paese «finito», con la sua eco­no­mia in mace­rie, con un governo e uno stato, irri­me­dia­bil­mente cor­rotti. Un paese che dipen­deva finan­zia­ria­mente dalle orga­niz­za­zioni inter­na­zio­nali e poli­ti­ca­mente e cul­tu­ral­mente accet­tava lezioni da chi l’aveva vinto.

Putin ha rotto que­sto schema con poli­ti­che e com­por­ta­menti pub­blici e pri­vati, uni­ver­sal­mente cri­ti­cati all’estero. Che la Rus­sia, l’ex impero zari­sta, l’ex Unione delle repub­bli­che socia­li­ste sovie­ti­che, torni a con­tare sulla scena inter­na­zio­nale è un impre­vi­sto calato sugli equi­li­bri post 1989, per colpa di una ex spia sovie­tica che si crede un novello Met­ter­nich. Poli­tici e grandi opi­nio­ni­sti Usa chie­dono a Obama di punirlo (to punish), men­tre al pre­sente Mer­kel sta veri­fi­cando le dif­fi­coltà di tener in piedi le due poli­ti­che paral­lele della Ger­ma­nia uni­fi­cata. Da un lato l’intesa com­mer­ciale con Putin e dall’altro l’egemonia sulle eco­no­mie dei paesi dell’ex Patto di Var­sa­via. E dun­que a brac­cetto con­tem­po­ra­nea­mente con la Polo­nia e con la Rus­sia. La sfida di Putin sulla Cri­mea è un sasso su tale sta­tus quo.

Innan­zi­tutto sono più chiari i gio­chi che da tempo si fanno sulla pelle degli ucraini. Il loro paese in crisi non fa gola all’Unione Euro­pea. Bru­xel­les e il Fondo Mone­ta­rio tre­mano all’ipotesi di dover­sene fare carico e infatti sino a ieri si sono spesi in lusin­ghe solo ver­bali. Oggi il con­fronto poli­tico li obbliga a pro­met­tere soldi, nella stessa quan­tità offerta da Putin, ma legati alle solite ristrut­tu­ra­zioni radicali.

Come è suc­cesso agli altri paesi est euro­pei: messi in salvo dalla gestione sovie­tica e subito calati in quella neo­li­be­ri­sta. L’effetto è lacrime e san­gue per buona parte degli abi­tanti e grandi for­tune per le élite finan­ziare trans­na­zio­nali. Se il brac­cio di ferro con la Rus­sia si risol­verà con Putin nell’angolo, allora per l’Ucraina finirà il limbo. È un limbo che dura dal distacco da Mosca, da quando un paese di 46 milioni di abi­tanti, supe­rin­du­stria­liz­zato, con una ricca agri­col­tura e soprat­tutto un retag­gio cul­tu­rale e reli­gioso, non è riu­scita a farsi stato.

È rima­sto un ter­ri­to­rio di con­qui­sta degli ex diret­tori dei grandi kom­bi­nat sovie­tici, gli oli­gar­chi che lo gover­nano. Il più noto è una donna, Yulia Abra­mo­vic Timo­shenko, la zarina del gas, così brava che pro­ces­sata per un suo ambi­guo busi­ness con Putin, in pri­gione si è dichia­rata vit­tima della lotta per l’indipendenza dalla Rus­sia. In tal senso è ormai un’icona uni­ver­sale, con la trec­cia bionda delle con­ta­dine ucraine anni trenta: un vero colpo di genio della comu­ni­ca­zione da parte sua che è un inge­gnere di etnia ebraica, di cul­tura urbana, esperta di mille traf­fici poli­tici ed eco­no­mici. E che ha impa­rato l’ucraino giu­sto al tra­monto dell’Urss.

L’altra pista del puzzle ucraino è capire appunto da dove ven­gono sto­rie simili. Io ho impa­rato il russo da Valia, un’ucraina della Gali­zia che a casa par­lava polacco, e non cono­sceva la lin­gua ucraina «tanto non serve impa­rarla». Le vicende allora apprese non da libri ma nel modo più dome­stico, mi aiu­tano a capire quelle di oggi. Valia rac­con­tava del col­la­bo­ra­zio­ni­smo degli ucraini, che per essi era una ven­detta nei riguardi dei bol­sce­vi­chi ebrei del Crem­lino, come Lazar Kaga­no­vic, un ex cia­bat­tino ebreo, mas­simo respon­sa­bile della guerra ai con­ta­dini e della care­stia. Rac­con­tava di quanto vene­rato fosse l’ultra nazio­na­li­sta Ste­pan Ban­dera, che appog­giava i tede­schi, e di quello che era suc­cesso ai tatari, depor­tati nel dopo guerra per­ché erano per i tur­chi. E infine vi era la Cri­mea, più bella di Capri, piena di ebrei, i quali ave­vano addi­rit­tura spe­rato di farne la loro repub­blica, «un foco­lare ebraico». Anche per que­sto Kru­schev l’aveva rega­lata agli ucraini, anti­se­miti come lui che era un mina­tore ucraino e ucraino era anche Bre­zh­nev, un ope­raio che aveva indu­stria­liz­zato la sua terra, strap­pan­dola al destino di gra­naio della Rus­sia. Da trenta anni l’Urss era gover­nata da diri­genti ucraini e Valia che par­lava nell’ultimissimo periodo di Bre­z­hev, non sapeva che un altro ucraino, Cher­nenko stava per diven­tare segre­ta­rio del Pcus.

Valia rac­con­tava della sua terra, di Kiev dove viveva, degli ucraini tena­ce­mente anti­co­mu­ni­sti e degli ebrei ucraini che vi vive­vano da secoli, con una luci­dità che sor­pren­deva in un intel­let­tuale sovie­tica dell’epoca.

È la mede­sima luci­dità delle ana­lisi di Haa­retz, il solo gior­nale (israe­liano) che descrive il puzzle ucraino senza le ipo­cri­sie degli altri. Certo lo fa per­ché pre­oc­cu­pato dalle aggres­sioni agli ebrei da parte di mem­bri di par­titi ultra nazio­na­li­sti, ora al governo e rice­vuti alla Casa Bianca. L’avversione per la Rus­sia di Putin è tale da soste­nere i suoi avver­sari comun­que siano. E invece la mossa utile per tutti i con­ten­denti è quella di ridi­scu­tere gli anni suc­ces­sivi alla fine dell’Unione sovie­tica e rico­no­scere gli errori com­messi allora da tutti i contendenti.

(il manifesto, 18 marzo 2014)

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