20 Febbraio 2015

Il racconto della vendetta

(indifferenza e vendetta sono risposte inevitabili?)

di Luisa Muraro

 

È andata così. L’anno scorso la rivista “Vita e Pensiero” dell’Università cattolica di Milano compiva cent’anni e per l’occasione organizzò un convegno intitolato “Dieci parole. Perché la nostra epoca ha bisogno di Dio”, al quale fui invitata anch’io. Le parole erano in coppia, affidate a oratori a loro volta in coppia. Il mio partner era l’illustre teologo Jürgen Moltmann; le nostre parole, misericordia e giustizia.

Dopo che Moltmann ebbe nobilmente parlato per “un’etica universale della pietà”, io lessi il mio discorso.

Della misericordia parlai brevemente citando, da una fonte mussulmana (la condanna del sedicente califfo Al-Baghdadi), le parole del profeta Maometto: sulla sommità del trono di Dio sta scritto che la sua misericordia è più grande della sua collera.

Mi sono fermata più a lungo sulla giustizia. Ho parlato del “farsi giustizia”, ma in un significato non abituale, che si può applicare al protagonista del film Gran Torino di Clint Eastwood (o al protagonista dei Vangeli). E vale per chi non ha a disposizione o non vuole usare i mezzi del potere (la spada e la legge). Si sono trovate in questa situazione le donne, ho detto. Sono così passata a presentare la politica delle donne nei secoli, vista alla luce del femminismo di questi decenni, come una ricerca di giustizia che si situa fuori dai rapporti di forza, in contrasto con le eroine tragiche Medea e Ecuba le quali si sarebbero vendicate dei torti patiti da uomini infierendo sui figli innocenti.

Da qui, viene il titolo del mio contributo, La politica delle donne: non per vendetta ma per giustizia, con riferimento a parole di Nadia Fusini, citate nel testo. Dovrei dire “veniva”, perché non è questo il titolo che compare sul numero speciale di “Vita e Pensiero” dedicato al centenario. Il titolo, infatti, è diventato stranamente diverso: Noi donne, non solo per vendetta.

Quando l’ho raccontato, le amiche sono scoppiate a ridere, come se fosse una barzelletta. Lo è, ma quando io vidi il titolo, confesso che mi prese un colpo di rabbia e di sconforto, una reazione che parve a me stessa esagerata. Una vita di pubblicazioni mi ha insegnato ad accettare gli interventi redazionali, così come si accetta il tempo che fa.

Ma questo non era un titolo sballato o un refuso o altro incidente più o meno casuale, questo mi arrivò come un messaggio. Diceva: è inutile che tu venga a raccontarci il femminismo, noi non ti crediamo, ammesso e non concesso che abbiamo voglia di capirlo. E a conferma della scarsa voglia, “la politica delle donne”, rimossa dal titolo, nel corpo del testo compare ma messa tra virgolette che non c’erano nell’originale, come a dire: che strana espressione. La “vendetta” forse c’entra, pensai allora, come parola evocatrice; forse in certe situazioni il fantasma della vendetta è ineliminabile. Lo squilibrio inevitabile di un mondo come quello cattolico che continua a essere comandato esclusivamente da uomini pur essendo formata principalmente da donne, è una di queste situazioni. E non c’è niente da fare, bisogna starci…

Mi ricordai l’interrogativo critico avanzato in un documento femminista, a proposito di quelle donne zelanti che alla violenza maschile rispondono proponendo di prendersi cura degli uomini violenti: “Ci chiediamo se non ci sia la tentazione di sciogliere la radicalità del femminismo abbassando il livello di tensione della relazione politica tra uomini e donne, che è quello che realmente produce spostamenti” (Nutrire la nostra libertà, rischiando di Claudio Vedovati e Sara Gandini).

La mia concezione del femminismo non può dirsi moderata, ma indubbiamente, in più occasioni, tra cui il centenario della rivista, mi sono sforzata di allentare la tensione tra femminismo e cattolicesimo. Che cosa cercavo, che cosa ho ottenuto? Cercavo di corrispondere alla buona volontà di mia madre, senza chiedermi che cosa abbia ottenuto lei con la sua buona volontà di cattolica praticante. Volevo combattere l’anticlericalismo diffuso tra una parte delle femministe, perché lo trovo urtante, (come tutto quello che è anti), senza badare al fatto che all’ostilità può subentrare l’indifferenza.

L’indifferenza, purtroppo, è una risposta per modo di dire. Una giovane francese di religione mussulmana ha raccontato sul quotidiano Le monde che lei, ancora studentessa di scienze della comunicazione, nel corso di un’esercitazione si era incontrata con Charb, il direttore di Charlie Hebdo, scelto non per simpatia ma, al contrario, perché si sentiva urtata dalle caricature di Maometto. Lui l’aveva ricevuta cordialmente, avevano un terreno comune, la causa palestinese, lei gli spiegò quanto le caricature fossero offensive anche per i mussulmani integrati nella cultura francese; si sentì ascoltata e in qualche misura capita. Ma poi, racconta, la rivista continuò a pubblicare le caricature. “Mi sono sentita tradita, conclude, e ho deciso d’ignorarli ed è questo il messaggio che ho trasmesso nel mio ambiente”. Nel deserto di relazioni politiche la redazione del settimanale satirico sarà poi sterminata da due fanatici.

Così sono arrivata a una conclusione provvisoria della mia riflessione sull’incidente del titolo, e la sottometto alle persone interessate.

Se pure fosse vero (non possiamo escluderlo a priori) che, in certe situazioni, su certi confini, vendetta e indifferenza sono risposte inevitabili, esiste tuttavia una terza possibilità, che è quella di aprire lo spazio relazionale dove la tensione che dicono Claudio e Sara, diventa praticabile. Impresa non facile. Dietro al tenace attaccamento maschile al potere, troppo spesso ci sono donne che credono di ottenere dei risultati mostrandosi accomodanti. L’ostacolo maggiore è un altro, tuttavia, ed è che le chiese, religiose o laiche, grandi o piccole, reclamano di preferenza l’appartenenza e praticano l’appropriazione. È un’eredità del passato rinforzata paradossalmente dall’individualismo di oggi per cui ogni differenza, se non è causa di odio, sparisce. Gli spazi relazionali non sono rimedi a questi mali, attenzione, non sono cioè luoghi fatti appositamente per lo scambio e il contradditorio tra persone che la pensano diversamente. Sono spazi aperti alla ricerca e alla libera frequentazione, con la possibilità d’incontrarsi. Non sono cortili, ma periferie.

Due riconoscibili abitatori dello spazio relazionale sono Giacomo Leopardi e Simone Weil, più riconoscibili di altre e altri in quanto, nei loro confronti, i tentativi di appropriazione sono falliti.

(www.libreriadelledonne.it, 20/2/2015)

 

 

 

 

 

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