17 Aprile 2013
il manifesto

Il telaio fiabesco della Penelope sarda

Addio a Maria Lai. La scultrice se ne va a 93 anni, viveva ritirata a Cardedu

 

di Arianna Di Genova

 

Impronte, paesaggi, parole preistoriche: nei suoi libri cuciti e scuciti a mano passò tutto il Novecento.

 

Esistono leggende che si aggrovigliano nei fili, tessute su una geografia immaginaria. E ci sono storie che si tramandano e altre che «si rammendano». Può accadere, poi, che quelle parole «filate» s’impennino fuori dalla traccia dell’ago, evaporino in un ragnatela di pensieri, così quasi per distrazione, segnalando mappe mentali prima sconosciute, trame poetiche e anche aspre che per avventura prendono la forma di un libro.

Maria Lai, la «cucitrice» del nostro Novecento, è morta all’età di 93 anni nella sua Sardegna, dove era nata nella città di Ulassai. Da anni, viveva ritirata a Cardedu, mentre le energie progressivamente la abbandonavano. Una delle ultime sculture, l’artista l’aveva dedicata al Gramsci narratore di fiabe: quel racconto su un topolino e la montagna, scritta in cella per il figlio Delio. Filiforme, la struttura si staglia nel paesaggio costruita pazientemente da operosi topolini. «Il topo sono io, la montagna è Ulassai, a cui voglio rimanere legata, in un tutt’uno con coloro che amano la libertà, pensando proprio a Gramsci…», aveva detto con una esilissima voce nel presentare l’opera.

 

 

La sua lunga vita è stata costellata di dolore e favole. L’infanzia in adozione dagli zii, le numerose malattie e convalescenze, l’isolamento, gli studi in ritardo, l’apprendistato con il maestro Salvatore Cambosu, l’abbandono dell’isola alla volta di Roma, l’Accademia con Mazzacurati, poi a Venezia con lo scultore Arturo Martini, il rientro in Sardegna su scialuppe di salvataggio, la morte del fratello Lorenzo per assassinio e poi quella di Gianni, in un incidente di volo….

 

A dispetto delle onde della vita che si abbattevano su di lei, Maria Lai ha continuato a «cucire» le storie del mondo, non dimenticando mai quelle private. Con i suoi occhi aerei, che colpivano per la mobilità acquosa così simile al mare sardo, ha fatto in tempo a vedere la nascita della casa per le sue opere, una dimora che lei considerava solo un transito, un ponte per diverse generazione: nel 2006, a Ulassai, è stato inaugurato il museo «Stazione dell’arte», dove sono raccolti circa centoquaranta suoi lavori.

Telai, libri con cieli, stelle, lune e animali, soprattutto api curiose. Le sculture di Maria Lai giocano con il linguaggio e inventano una «lallazione» particolare: le parole vengono scucite, si espandono oltre i confini della riga e del significato: sono lì ad indicare che non tutto si può affrontare con la logica, che la realtà necessita di magia. Le lettere «balbettano», si dipanano oltre la superficie e cadono giù, fuori dalla cornice-libro, in rivoli di frange capricciose. Non raccontano, almeno non in modo razionale, non sempre si susseguono causa e effetto nelle geografie sentimentali; piuttosto, quelle informali lettere sono una preistoria della parola. Non tutto è dicibile. E le emozioni sono impalpabili più della luce estiva.

 

Le impronte, i luoghi, le isole, il vento, le fiabe – quelle epifanie di legno, pane, terracotta, pietra, stoffa e filo che Maria intesse con un lavoro certosino per anni e anni – è come se fossero le uniche tracce percorribili, i «fossili» dell’infanzia collettiva dell’intero pianeta. Piace immaginare che Maria Lai quelle tracce le abbia seguite a piedi nudi.

 

I suoi libri sono diari tattili, pagine di stoffa come frammenti di corpo, «pelle» da incidere. Si radicano profondamente in una terra antica, selvaggia, nascono annusando pani votivi e amando l’odore delle capre al pascolo. Immagini che diventano «oggetti filati» in un bricolage perseguito con costanza e passione, nonostante non sempre incontrasse il favore del pubblico e del mercato. Nonostante l’artista, ai suoi inizi, venisse trattata da «straniera», in quanto donna. Le chiedevano addirittura di firmare i suoi disegni con pseudonimi maschili.

 

Maria Lai però non si arrese. E seppe «scartare» la via dei musei e gallerie, a modo suo. Quando le venne chiesto di realizzare un monumento ai Caduti in guerra, l’artista preferì fare un dono ai vivi. Riconnettendosi a una leggenda di Ulassai, tenne unite le porte degli abitanti del paese con nastri di stoffa srotolati per ventisette chilometri e le loro estremità vennero agganciate al Monte Gedili. Era il 1981 e Legarsi alla montagna durò tre giorni e molti di più ce ne vollero per convincere le famiglie a partecipare superando vecchi rancori, anzi, anche i diverbi e gli odi vennero inglobati nell’operazione artistica. La quotidianità può essere un lapsus creativo e trasformarsi in un’affabulazione in sintonia con i propri desideri.

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