Il 15 aprile 2014 è mancata la nostra amica Serena Sartori. Vogliamo ricordarla con due articoli che qualche anno fa ha scritto per Via Dogana. L'Africa, la politica, il teatro, la passione: grazie Serena, con tutto il nostro affetto.
27 Aprile 2014

In ricordo di Serena Sartori – due articoli di Via Dogana


da via Dogana n. 61, giugno 2002, Libertà senza emancipazione

A COSTO DI NON CAPIRE

Riflessioni di un’occidentale in Africa

di Serena Sartori

 

Giusti dieci anni quest’anno. Era l’agosto del ’93 e sono andata in Burkina, anzi in Africa per la prima volta, grazie all’invito pressante di un grande amico africano: “Vedrai, la mia terra ha bisogno di te, di voi, del vostro lavoro, un bisogno al quale non puoi restare indifferente…” Malgrado la grande fiducia in lui, avevo preso quel viaggio come un’occasione di conoscenza, non diversamente dagli altri innumerevoli viaggi fatti nella mia vita di teatrante nomade, di ricercatrice. Il teatro che faccio, che insegno da tanti anni, che metto in scena, è un teatro d’incontro, tra persone, tra artisti, tra culture, tra differenze. Come potevo resistere alla proposta di Sotigui, che mi aveva preparato un piano di viaggio, le tappe, gli incontri, gli scambi, un viaggio attraverso i Kouyaté, la grande famiglia dei griot di tradizione? Certo, non avevo minimamente previsto che quel viaggio avrebbe cambiato radicalmente la mia vita di persona, di donna, d’artista.

L’impatto fu durissimo. Da una parte, la grande povertà, che però non mi era nuova dopo i viaggi in India, in Indonesia e nel Nord Africa. Dall’altra, una cultura dell’accoglienza mai incontrata prima, un’accoglienza che ti fa sentire “a casa”, che ti solleva da tutte le difficoltà di differenze, di lingua, di abitudini, di diplomazie, di strategie e tattiche d’incontro. Di colpo, da che sei sbarcata dall’aereo, chiunque incontri e ovunque lo incontri, è qualcuno che ignora la privacy, anzi ti fa pensare che la disprezzi, qualcuno con il quale (la quale) puoi condividere chiacchiere, riflessioni cosmiche e politiche, racconti, pranzi dal piatto comune, lunghi tè pomeridiani nelle corti, una festa di matrimonio, un battesimo, dove sei trascinata a danzare per condividere la gioia dell’avvenimento, che non si comunica con formule verbali. Di colpo fai parte della “famiglia”, basta che tu lo voglia o, meglio, basta che superi la paura della promiscuità e della perdita di te.

Il primo viaggio mi provocò una crisi profondissima, una spaccatura dove ho vissuto tutta la difficoltà di abbattere le mie barriere, le mie angosce di donna occidentale e la mia stessa sistemazione del mondo, per sbattere con gli occhi e il cuore in una realtà le cui urgenze e le cui richieste sono enormi, tanto quanto l’accoglienza, appunto.

Mi colpirono fin da allora le grandi differenze tra uomini e donne, differenze totali, da subito appariscenti. Le donne è difficile incontrarle fuori dalle corti, a parte le poche intellettuali o artiste. Le donne “sono” la casa, sono maman dall’età della pubertà. Sono il mercato, sono il cibo, accucciate a terra a soffiare sul fuoco con enormi pentoloni a ribollire, sono il lavoro immane del giorno dopo giorno, sono la spina dorsale di quel corpo per il resto macilento e malato che è diventato l’Africa. Le donne sono corpi forti e presenti, sensuali, con aggrappati grappoli di bambini, sul dorso, alle gonne, al seno. È vero che, fuori dal suo regno tutto femminile, le donne sono considerate un soggetto scarsamente decisionale nella società africana, è vero che l’uomo africano, mediamente, delega alla donna ogni responsabilità fuorché quella del comando, ed è vero che spesso lui si crede signore e padrone di lei. Ma è anche vero che la donna africana non vede nell’uomo un modello da imitare, anzi potrei quasi dire che ne ha una specie di sopportazione superiore, andando incontro ad ogni sua necessità affettiva con un senso fortissimo di maternità e sorellanza.

Il risultato è assai difficile da interpretare alla luce del nostro schema occidentale. Quell’incredibile forza terrena, quell’assenza di vittimismo, quell’ironia sfrontata che fa rilucere di energia vitale gli occhi delle donne africane, non s’incontrano nella nostra dimensione di donne emancipate e moderne. E poco hanno a che fare con la rappresentazione corrente che ci facciamo di loro come vittime di un’oppressione. Penso a donne come Agnès, la mamma di un ragazzo morto a 27 anni, che era la luce dei suoi occhi (e in parte mio figlio adottivo, una luce anche per il mio cuore), sempre forte e ironica, anche quando le venivano le lacrime agli occhi. O come Christine, HIV sieropositiva a 25 anni per un matrimonio forzato con un vecchio, una donna splendente di carica vitale, che ha fondato l’associazione di sieropositivi a Bobo Dioulasso, ha adottato un bimbo abbandonato e travolge tutti nel suo ottimismo. O come Odile che ha deciso di non sposarsi e di non fare figli, per dedicarsi all’associazione Talents de femmes e alla presa di coscienza femminile mediante la scrittura e il teatro… Eccezioni? Parlo di donne che mi hanno colpito più di altre, certamente, e che ho conosciuto meglio, ma le maman giovani e vecchie che incontro negli ormai frequentissimi soggiorni in Africa, mi stupiscono sempre nella loro dimensione trainante di forza. Mi ricordano una mia nonna, analfabeta e poverissima, che sapeva governare ogni decisione nella famiglia con ironia quasi crudele: sarebbe stato ben difficile inquadrarla nella dimensione dell’oppressa.

Sì, per noi è veramente difficile comprendere, la nostra è un’altra storia. Ma, proprio per questo, chi vuole entrare in relazione, deve rinunciare al ragionamento consequenziale cui siamo abituate, a costo di capire meno ancora.

La differenza lì è la loro forza e la loro debolezza.

Tanto è forte il cosmo femminile che spesso le donne preferiscono stare in quella loro autosufficienza, in quella loro complicità esclusiva, lasciando agli uomini un’illusione di comando.

La loro debolezza è non avere ancora la necessità collettiva di agire la differenza nel pubblico, nel sociale, non contribuendo, di conseguenza, a trasformare le ragioni di uno status che si va facendo sempre più estremo e sbilanciato…

Non invidio la donna africana, non vorrei e non potrei accettare le cose che lei accetta, ma non mi permetto di considerarla secondo i miei parametri: non potrei proprio. Sono sempre più convinta che noi non possiamo esserle da modello, così come penso che, coltivando lo scambio e l’apertura reciproca dei nostri differenti percorsi d’esperienza, le une alle altre possiamo essere fertili per una visione di donna viva e vitale. Una visione non schematica.

Della condizione delle donne si parla molto in Africa. Un numero enorme di ONG mondiali fanno progetti per la loro emancipazione, progetti contro i matrimoni forzati, contro l’escissione, contro il sopruso e l’esclusione dalla politica, per la creazione di lavoro femminile… Progetti dai quali spesso mi trovo a prendere le distanze per la loro visione manichea e in fondo arrogante e poco curiosa e indiscutibilmente eurocentrica. Una visione che finisce col fissare i ruoli e impoverire lo scambio.

Dove me lo hanno richiesto, collaboro a progetti che tendono a mostrare il valore delle donne per l’intera società africana: progetti teatrali, letterari, artistici. Ma quando ritorno qui e ne parlo, mi coglie come una sorta d’insofferente reticenza. Timore delle visioni troppo facili o proiettive verso una carica gioiosa ed erotica da noi in via d’estinzione, o di un altrettanto facile pietismo per la loro condizione di oppresse. Di fondo, mi ritrovo spesso davanti ad una fretta di far rientrare in questo o quello schema una realtà che, dopo dieci anni di frequentazione, continua a provocarmi riflessioni e domande. Cosciente di quanto il movimento delle donne mi abbia aiutato ad uscire dagli schemi fortissimi della società della mia adolescenza, mi chiedo spesso che cosa abbiamo perso, oltre a quello che abbiamo conquistato, e perché. Discutendo con le mie giovani allieve, mi chiedo che cosa abbia provocato, da noi, la crescente paura della maternità, il dichiarato rifiuto a prendersi cura d’altri, quasi una paura di perdere sé, e come sia nata questa fragilità che diventa patologia crescente che divora corpo e mente. Che cosa, se non l’interiorizzazione, malgrado tutto, di un modello faticosissimo e impossibile di “uguaglianza”.

E continuo ad elaborare il diverso impatto – che a me, che vivo nel teatro, arriva più attraverso il corpo e il comportamento, che non attraverso le dichiarazioni d’intenti – che provocano i nostri corpi sempre più fragili ed efebici, malgrado le grandi e irrinunciabili conquiste, rispetto a quei corpi forti, ridenti, danzanti e ironici di maman che attraversano difficoltà per noi oggi inaccettabili, e che continuano ad essere il cuore pulsante della società.

 
Via Dogana n. 76, marzo 2006, Il mondo è un campo di battaglia


Autunno 69, autunno 2005

di Serena Sartori

 

È il 69. Porto Marghera, anzi Mestre in una stanzetta a lato della saletta incontri del Movimento, Silvana, Sonia e io, ci chiamavano le tre S, tutte e tre formose ed esuberanti, capelli lunghi e chiari vere compagne militanti… militanti? Stiamo dipingendo gli striscioni per la manifestazione del giorno dopo, vernice rossa e vernice nera da arrotondare con cura nei limiti degli slogan scritti a matita da uno di loro sulla tela bianca delle lenzuola portate da noi, …loro che nella stanza accanto stanno discutendo con grande foga le strategie e le tattiche i motivi e le ragioni, le ideologie e le verità che Lui aveva ancora una volta esposto con grande maestria. Siamo lì dal mattino dopo il volantinaggio delle 4 davanti al Petrolchimico. Stiamo giusto comunicando l’un l’altra la quantità dei palpeggiamenti subiti al volo dai compagni operai che più che il nostro ingenuo impegno apprezzano le nostre fresche forme rotonde.

Avremmo voluto partecipare, capire, essere in qualche modo parte di questo subbuglio confuso che ci aveva scaraventato in un fiume impetuoso di attività, impegni, riunioni, assemblee, manifestazioni, collettivi, occupazioni di cui continuavamo ad aver private e silenziose perplessità…

Ma oggi sembra essere un appuntamento particolarmente importante.

Di là è arrivato il maestro, la sua voce inconfondibile, sta chiarendo la linea da seguire per le manifestazioni di domani, una voce perentoria, decisa e sicura, una voce di docente, sta spiegando con cura… qualcosa che riguarda la questione Internazionale. Ascoltarlo è ogni volta una suggestione ma ogni volta non posso fare a meno di notare le enormi contraddizioni tra i motivi teorici che ci vedono da più di un anno fare politica assieme e il comportamento relazionale che mi provoca il disagio di sempre, vivo una differenza a cui ancora non so dare nome.

Ci hanno detto che dovevamo dipingere gli striscioni, che il nostro impegno era molto apprezzato ma che il momento era delicato e che comunque il nostro ruolo era fondamentale anche in quell’attività apparentemente banale come dipingere striscioni (o trascrivere ta-ze-bao, o pulire la sede o tenere i verbali o fare il caffè e i panini…).

Ma quello è un giorno speciale, c’è il sole caldo in un autunno appena iniziato. Io nel mezzo Sonia alla mia destra e Silvana alla mia sinistra, parliamo fitto, ci raccontiamo i pettegolezzi dell’ultima ora, l’intrico di relazioni private e nascoste che attraversano i compagni e le compagne, malgrado la seriosità dei comportamenti ufficiali.

Condividiamo per la prima volta le nostre forti sensazioni, i desideri, le differenze, le grandi differenze da cui malgrado tutto e tutti, sentivamo provenire la forza… come un lampo di consapevolezza senza ritorno… che ci facciamo qui??? Le dita sporche di vernice nella stanza accanto come mia madre nella cucina con il sugo mentre dall’altra parte si discuteva del futuro dell’Arte nel dopoguerra… che ci facciamo qui?? Come ci riguarda tutto questo, dove siamo noi in tutto questo? Le poche volte che nelle assemblee ho provato timidamente a esprimere le mie idee sono stata zittita con perentorietà, lui poi non sopporta posizioni personalistiche né dubbi, c’è la rivoluzione da fare e poi operaiestudentiunitinellalotta è lo slogan che impedisce di uscire dalle categorie. E poi c’è Laura che invece c’è dall’altra parte, Laura che ci sbalordiva tutte con il suo linguaggio smodato, le sue bestemmie ogni tre parole, la sua gestualità mascolina ma soprattutto la sua bellicosa competitività col Maestro. E in qualche modo proprio Laura ci faceva sentire ancora più diverse.

E finalmente ci raccontiamo tutto questo, lo condividiamo senza la paura di sentirci poco opportune, ricordo la risata all’idea che poco a poco ci contaminava di piantare lì tutto, e seguire quella strada che poco a poco si stava delineando come la strada anche per noi, il nostro luogo nella generazione di ribelli che eravamo. E l’abbiamo fatto, d’impulso, abbiamo depositato pennelli e grembiuli a metà lavoro, siamo andate ridendo come matte a Venezia a fare una passeggiata continuando a condividere finalmente tutto quello che ci aveva allontanato, tutto quello che avremmo desiderato mettere in discussione e che non avevamo fatto sicure della loro risata beffarda o della loro indifferenza. O peggio sicure dell’accusa di essere “reazionarie”.

Qualche tempo dopo io a Milano, Silvana a Trieste e Sonia in Sicilia ci siamo perse.

Ma a loro debbo la gioia di quel momento che ha dato inizio a quella fase che dapprima ha avuto voce negli incontri di autocoscienza e riflettendomi negli scritti di Simone de Beauvoir dapprima e poi Luce Irigaray e poi Luisa Muraro e molte altre e poi riscontrandosi soprattutto nelle relazioni e nella pratica quotidiana con altre donne. Una dimensione che ha trovato poi finalmente espressione nel mio teatro con altre donne: Maria, Carlina , Angela, Iva, Renata… processi e modalità creative profondamente diverse, che sono diventati via via metodologie di approccio alla creazione. Nel Teatro ho sempre lavorato accanto anche a uomini, ma uomini che avevano scoperto la propria necessità di affrontare e confrontarsi con questa differenza. Non sarebbe stato possibile condividere cammini altrimenti.

E oggi dopo anni di pratica e di ricerca di un teatro che prenda la forza dal femminile ma non solo per donne, ci sono accanto a me anche giovani uomini di teatro che non hanno remore a riconoscere nella mia esperienza una fonte da cui attingere, che mi scrivono chiedendomi consigli, che considerano questa diversa modalità una ricchezza anche per loro. Per una forma espressiva che diventi per tutti.

Ho sentito il desiderio di raccontare dopo 37 anni questo mio particolare inizio dopo aver letto l’opuscolo di Toni Negri che parla della Differenza italiana (Nottetempo, Roma 2005).

Scettica sulla sua scoperta della filosofia della differenza mi chiedo da quale pratica, da quale esperienza provenga questo suo riconoscimento, sì perché a me pare che la caratteristica diversa di questa filosofia, da tutte le altre filosofie storiche a cui lui si riferisce, è che proviene innanzitutto dalla pratica, che riflette sulla pratica, cosa che non era richiesta a nessun filosofo precedentemente e che la si può veramente condividere solo praticandola.

Sento nel suo linguaggio una trappola pericolosa.

Se la filosofia della differenza è “pratica trasformatrice”, come lui stesso la definisce, la trasformazione che questa pratica mette in moto si riflette su ogni cosa e quindi anche sul linguaggio. Riecheggia nel suo opuscolo l’abilità del maestro di allora, di definire linee e ambiti in cui il teorico si nasconde dietro alla sua capacità di inquadrare, analizzare e sistematizzare.

Quasi a cavalcare l’opportunità che in un momento di grande crisi politica questa filosofia offre.

Forse questo scetticismo mi viene da quegli inizi, o forse per credere a questa conversione avrei voluto saper leggere dove si colloca l’uomo che scrive, dove è cominciato l’esodo.

Il suo esodo in questo autunno di 37 anni dopo.

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