4 Febbraio 2014
il manifesto

In una parola / Cura

di Alberto Leiss

 

Il linguaggio della politica sembra aver perso quasi ogni senso, e rischia di essere sommerso dalla brutalità degli insulti, dalle volgarità sessiste. La spia linguistica segnala che la crisi della politica è soprattutto una “questione maschile”. E lo conferma, specularmente, l’ascolto di parole diverse, più significative, in contesti dove prevale la presenza e la politica delle donne.
Per esempio alla Libreria delle donne di Milano, sabato scorso, a proposito del libro di Letizia Paolozzi Prenditi cura (recensito su questo giornale da Alessandra Pigliaru).
Il libro racconta il dibattito seguito, in vari luoghi del paese, alla pubblicazione del testo delle “femministe del mercoledì” La cura del vivere. Un confronto che ha coinvolto anche un certo numero di uomini, al quale ho partecipato sempre osservando come la parola cura – adoperata rovesciandone il senso: da ruolo oblativo subito dalle donne a un di più necessario a tutte e tutti per comporre una buona vita – faccia scattare riflessioni profonde su di sé e sul mondo. Su quello che significa lavorare, desiderare, amare, confliggere. Vivere le relazioni con gli altri, e in definitiva andare alla radice di ciò che intendiamo per politica.
Lia Cigarini ha insistito proprio sul valore simbolico di questo di più significato dalla parola cura, da tenere strettamente unito a quello – per lei più fondamentale – di relazione.
Ma nelle relazioni di cura – è stato detto – è forte il contrasto tra il desiderio, il piacere, e la violenza e le logiche di potere che spesso vi sorgono. Parlare di cura non rischia di rendere opache queste dinamiche conflittuali? Di rimuovere l’esigenza di lotte per ottenere il riconoscimento del lavoro di cura, di un welfare adeguato? Di battaglie per cambiare la divisione dei ruoli di genere?
Io penso che la cura possa nominare e riconoscere non solo la forza e la direzione difficilmente misurabili dei sentimenti che ci muovono, ma anche il fatto che il nostro desiderio deve pur fare i conti con la responsabilità nei confronti degli altri e del mondo che ci circonda. Se, soprattutto per noi maschi, non vale più il ruolo regolativo della legge del padre, il prendersi cura può significare il guadagno di un nuovo modo di agire le relazioni, con altri uomini e altre donne, nella paternità e negli affetti, nel lavoro, nel rapporto con l’ambiente, nella politica, unendo libertà e responsabilità. La cura diventa allora un grimaldello linguistico, una leva per smascherare un’economia che non vede la parte essenziale delle nostre vite, e che produce incuria : vincono gli interessi peggiori, dominano la volgarità e l’urlo dei sentimenti più bassi.

(il manifesto, 4 febbraio 2014)

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