25 Gennaio 2014
Il Quotidiano della Calabria

In uscita il film su Hannah Arendt

di Franca Fortunato



In occasione della Giornata della Memoria, il 27 e 28 gennaio, arriva nelle sale italiane, ma solo in poche (70 in 19 città), in nessuna in Calabria, il film di Margarethe Von Trotta sulla vita di Hannah Arendt, una delle più grandi pensatrici del Novecento. Un film realizzato in coproduzione con Germania, Lussemburgo, Francia e Israele e che il New York Times ha definito “uno dei dieci film migliori del 2013”. Dopo la presentazione al festival di Toronto nel 2012, il film ha viaggiato negli Stati Uniti e in tutta Europa, tranne in Italia perché – come ricorda Ida Dominjanni su Alfapiù – le sale non ritennero “commestibile la storia di una ignota filosofa”. Per anni io stessa, da insegnante di filosofia, ho fatto conoscere la vita e il pensiero di questa grande pensatrice che non voleva essere annoverata tra i filosofi, “professionisti del pensiero”. Nel 1993 scrissi un testo scolastico “Hannah Arendt – L’amore per la politica”, ediz. Ursini, che ancora oggi è in uso nella mia scuola. La mia non è un’eccezione, basta guardare dentro molte scuole e università italiane e in tanti luoghi politici delle donne. Ma, torniamo al film. Ha un cast di produzione tutto femminile: la regista, la co-sceneggiatrice americana Pam Katz, la produttrice Bettina Brokemper, la direttrice della fotografia Caroline Champetier, la montatrice Bettina Boler. Il racconto si concentra negli anni 1960-1964, gli anni del processo Eichmann, a cui seguì il “caso Arendt”. Quando Hitler prese il potere, nel 1933, Arendt visse una svolta decisiva: il riconoscimento di essere ebrea segnava una profonda radicalizzazione esistenziale e, preso congedo dall’ambiente della filosofia esistenzialistica in cui era cresciuta, insieme alla madre Martha Cohn clandestinamente emigrò in Francia, dove rimase quasi dieci anni. Nel 1941 partì per gli Stati Uniti. Il congedo dalla filosofia avvenne per il giudizio duro che lei espresse sulla filosofia: un riflettere accademico che perde la connessione con la politica, come aveva visto accadere con Heidegger, che chinò il capo di fronte ai nazisti e, delirando, vide nel nazismo un momento di rinnovamento della vita stessa, e con Jaspers, suo maestro, che non capì cosa stesse succedendo fino a quando fu cacciato dall’università e dovette fuggire in Francia perché sua moglie era un’ebrea. Arendt, interrotta la sua carriera intellettuale, si dedica interamente all’attività politica: a Berlino frequenta i gruppi sionisti, a Parigi lavora per l’organizzazione che provvedeva a far emigrare ragazzi ebrei in Palestina, a New York diventa pubblicista, scrivendo su varie riviste ebraiche. Da queste colonne auspica la formazione di un esercito ebraico che partecipi alla lotta contro Hitler. Subito dopo la fondazione dello Stato d’Israele si unisce a un gruppo, guidato da Judat Magnus, che cercava un riavvicinamento tra arabi e ebrei sul suolo palestinese. Nel 1961, come inviata del settimanale New York, assisté alle 120 sedute del processo ad Eichmann, l’ex SS. a cui era stata affidata l’organizzazione dello sterminio ebraico e che i servizi segreti israeliani avevano catturato e rapito in un misero sobborgo di Buenos Aires, dove si era rifugiato con la famiglia. Tutto era ormai finito, quando scoppiò il caso Arendt, in seguito alla pubblicazione del suo libro “La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme”. Libro che la Feltrinelli oggi ripubblica in formato digitale, in coincidenza con l’arrivo del film della Von Trotta. Si cominciò ad accusarla di essere stata iniqua nei confronti dei capi delle varie comunità ebraiche che avevano dovuto collaborare con le autorità naziste e a cui sembrava imputare la colpa di una mancata resistenza al massacro; si finì col dare a tutto il libro il significato di un gesto di inimicizia verso il nuovo Stato degli ebrei, le sue istituzioni, la sua giustizia. Fu accusata di non “amare” il popolo ebraico. In effetti lei aveva messo in discussione l’idea rassicurante dell’assoluta innocenza delle vittime. Cosa insopportabile per gli ebrei, ma che già una di loro, Etty Hillesum, morta nel campo di concentramento di Auschwitz, aveva denunciato nel suo Diario. Arendt aveva definito il caso Eichmann “banalità del male” intendendo che lo spaventoso era che l’imputato non si rivelava la belva umana che l’accusa voleva dimostrare al mondo e che il mondo si attendeva di vedere. Per assurdo che fosse, il processo rivelava un Eichmann che aveva sempre concepito la sua attività come un “lavoro”, con tutte le caratteristiche del lavoro d’ufficio, meticoloso ed ordinato, che doveva esser fatto al meglio e che era moralmente neutrale. Eichmann manifestatamente non capiva, era incapace di pensare, si riteneva un uomo corretto e un buon cittadino, un funzionario scrupoloso e onestissimo (alla caduta del nazismo aveva perfino consegnato la cassa, di cui disponeva, a un funzionario civile). Rifuggiva dal sangue e, personalmente, non aveva mai ammazzato nessuno. Anzi, non odiava nemmeno gli ebrei, tra i quali aveva qualche parente, e se fosse dipeso da lui li avrebbe deportati nel Madagascar, dove si sarebbero forse salvati. Pure non era arretrato di fronte a nulla. Con lo svelare la “normalità” di Eichmann, per questo ancora più terribile, Arendt metteva in discussione l’idea rassicurante della eccezionalità della mostruosità del male. A distanza di tanti anni il suo insegnamento “per prevenire il male c’è bisogno dell’esercizio del pensare”, vive in quelle ebree ed ebrei, come la filosofa statunitense Julith Butler, recentemente accusata di appoggiare Hamas e Hezbollah, per aver condannato la politica israeliana – l’occupazione, l’uso delle detenzioni a tempo indefinito e il bombardamento della popolazione a Gaza – nei confronti del popolo palestinese. «L’errore – scrive la Butler nel suo libro “A chi spetta una buona vita?”, Ed. nottetempo – sta nel considerare lo Stato d’Israele come l’attuale rappresentante dell’ebraismo e nel pensare che, se una persona si definisce ebrea, questo implica dare sostegno a Israele e alle sue azioni. Ci sono sempre state tradizioni ebraiche che si sono opposte alla violenza di Stato, che hanno affermato la coabitazione multiculturale e difeso i principi dell’uguaglianza. Oggi è molto importante mettere in luce e tenere in vita queste tradizioni.»

(Il Quotidiano della Calabria – 25/1/2014)

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