20 Marzo 2015

Interrogarsi sulla violenza maschile non basta più

di Massimo Lizzi


Vorrei dare valore al fatto che uomini impegnati contro la violenza, l’8 marzo dalle colonne di uno storico giornale di sinistrail Manifesto, dichiarino di interrogarsi sulla violenza maschile e sollecitino altri uomini a farlo. Ma questo gesto, ora, non basta più, le loro parole suonano come vuota retorica, se poi evitano di dire cosa ci fanno con i loro interrogativi.
Non è che le loro domande non mi riguardino. Anzi. Anche a me capita, nel disaccordo, di usare toni offensivi, sminuenti, persino violenti per alcune mie amiche, nonostante io sia un uomo che si dichiara contro la violenza. In realtà mi vedo soltanto come assertivo e vedo loro variamente fragili, suggestionate o manipolatrici inconsapevoli. Messo di fronte alla descrizione delle mie dinamiche riesco ad ammettere che esprimo una volontà di controllo, nei contrasti per me più importanti. Ma l’ammissione non sempre impedisce che la dinamica si ripeta.

 

Il contrasto fa velo, l’ho verificato in prima persona. La confusione tra conflitto e violenza e il discredito della parola della donna sorreggono l’autodifesa maschile, di fronte agli altri e a se stessi. Se lei ci denuncia in pubblico, lo fa per rovinarci. Se ci denuncia in privato, lo fa per manipolarci. Se lei è in buona fede, è debole e si fa male con poco.

 

Quando lessi di un uomo di Maschile Plurale (MP) accusato di violenza psicologica, pensai, come riflesso immediato, fosse il tentativo di danneggiare l’immagine di una persona, di un gruppo, o un conflitto privato rispetto a cui c’era solo da osservare e sospendere il giudizio. Mi ci è voluto un po’ per capire che il mio essere uomo poteva mettermi in una posizione collusiva. Se un uomo di sinistra, in relazione con femministe, aveva compiuto violenza psicologica sulla sua compagna, poteva mettere in crisi l’immagine di tutti gli uomini come lui, davanti alle donne e a se stessi. Salvare la credibilità di uomini impegnati contro la violenza era importante, e mi induceva, ancora una volta, a negare la credibilità di lei.

 

Così ho scelto di crederle ed è stata una scelta politica. Indipendentemente dalla vicenda privata dei due, ho scelto di dare valore al fatto che lei avesse nominato la violenza e ho scelto di interrogarmi come maschio su questo punto. Se capitasse a me? La violenza maschile è endemica – e io so di non esserne immune – e il discredito che colpisce le donne è sistematico.

Ma soprattutto ho scelto di affidarmi alla relazione e allo scambio con alcune donne che sembravano muoversi con più chiarezza di me e che hanno poi preso la parola per chiedere a Maschile Plurale di essere coerente con se stesso e di non esporre la donna ad una rivittimizzazione, ovvero a non agire di nuovo violenza.

È un anno che continuiamo a discutere di questa vicenda, e molti contributi di riflessione sono stati pubblicati anche sul sito della Libreria delle donne di Milano, come mai non se n’è fatto cenno in questo articolo pubblicato sul Manifesto? Come è possibile che uomini che considerano la narrazione dell’esperienza e il partire da sé una pratica politica fondamentale scrivano un testo sulla violenza sulle donne come lo avrebbero scritto due anni fa? Non c’è alcun sapere emerso in questa vicenda che valga la pena di essere nominato?

Mi chiedo quindi che cosa se ne fanno gli uomini di MP di affermazioni come: «La violenza ci riguarda»

(www.libreriadelledonne.it, 20 marzo 2015)

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