23 Dicembre 2015
The Financial Times

Intervista a Elena Ferrante: i miei libri e l’enigma della mia vera identità

di Liz Jobey

Nel 1991, quando stava per essere pubblicato il suo primo romanzo, “L’amore molesto”, l’autrice scrisse una lettera ai suoi editori italiani. «Credo che i libri, una volta scritti, non abbiano bisogno dei loro autori. Se hanno qualcosa da dire, prima o poi troveranno lettori; in caso contrario, no… E inoltre: non è forse vero che promuoverli è costoso? Io sarò lo scrittore meno costoso della casa editrice. Vi risparmierò perfino la mia presenza».

La scrittrice meno costosa, forse, ma di sicuro la più enigmatica, e ormai anche quella di maggior successo. Da allora sono stati tradotti in inglese sette suoi romanzi, pubblicati sotto lo pseudonimo di Elena Ferrante, colei che è diventata la scrittrice vivente di fiction italiana più famosa. A settembre è stato pubblicato in inglese “The Story of the Lost Child” (“Storia della bambina perduta”), il quarto e ultimo romanzo della sua saga napoletana, le cui vendite ormai hanno raggiunto negli Stati Uniti le 750mila copie, mentre nel Regno Unito si avvicinano alle 250mila. Le edizioni straniere sono ferme a 39.
Col crescere della fama di Ferrante, si sono moltiplicate anche le varie congetture: i libri sono stati scritti davvero da Sandro Ferri, l’editore italiano? O forse da Sandra, sua moglie e socia in affari? Ferrante è un uomo? (Inverosimile, se avete letto i libri.) Può darsi che siano stati scritti dalla sua traduttrice inglese, Ann Goldstein?
In quella prima lettera, Ferrante lasciò aperto un unico canale: «Mi farò intervistare soltanto per iscritto, ma preferirei limitare le interviste al minimo indispensabile». Il mese scorso ha acconsentito a concedere una delle sue rare interviste per questo numero speciale di FT Magazine.

Grazie a queste comunicazioni saltuarie siamo a conoscenza di alcune informazioni sommarie riguardanti la sua vita. È nata e cresciuta a Napoli. Il periodo coperto dai suoi romanzi lascia intuire che la sua infanzia sia stata più o meno negli anni Cinquanta. Ha effettuato studi classici ed è stata, o è, sposata. Ha figli (ha riferito al “New York Times” che la sua scrittura «spesso è entrata in conflitto con il mio amore verso di loro»).
In Italia c’è stato un intervallo di dieci anni tra la pubblicazione del primo e del suo secondo romanzo, “I giorni dell’abbandono”. L’incipit (“Un pomeriggio d’aprile, subito dopo pranzo, mio marito mi annunciò che voleva lasciarmi. Lo fece mentre sparecchiavamo la tavola…”) ha immediatamente trascinato i suoi lettori nella violenta catarsi emotiva che sarebbe seguita.

Nel 2013, subito dopo la pubblicazione in inglese di “My Brilliant Friend” (“L’amica geniale”), il primo dei romanzi napoletani, James Wood, critico letterario del “New Yorker” ha scritto l’articolo che ha consacrato il talento di Ferrante: «I suoi romanzi sono intensamente e violentemente personali … Sembra quasi che facciano balenare davanti agli occhi del lettore che nulla sospetta una serie decisiva di confessioni». Il contenuto «spesso è schietto in modo sconvolgente: maltrattamenti infantili, divorzio, maternità, la voglia di avere o non avere figli, la noia del sesso, il ribrezzo del corpo, la lotta disperata della voce narrante per mantenere una solida identità all’interno di un matrimonio tradizionale». Questi argomenti saranno poi affrontati nei tre romanzi ambientati a Napoli che seguono. Al centro di tutti ci sono due amiche, Lenù e Lila, che crescono insieme a Napoli. Raccontata da Lenù, che diventa scrittrice, la loro amicizia si dipana in una compagine di personaggi i cui complessi rapporti condurranno i lettori attraverso decine di anni di lotte, di femminismo emergente e di cambiamento sociale.

I libri di Ferrante sono diventati un’ossessione letteraria, particolarmente per le donne che trovano l’accuratezza emotiva della sua scrittura così reale da sentirla e farla propria.

LE DOMANDE E LE RISPOSTE DI ELENA FERRANTE
Quando ha iniziato a scrivere?
A partire dalla tarda adolescenza.

Lei ha detto di aver scritto a lungo senza avere l’intenzione di pubblicare, e nemmeno di far leggere ad altri ciò che stava scrivendo. Agli inizi quale funzione ha avuto per lei la scrittura?
Scrivevo per imparare a scrivere. Mi pareva di avere cose da raccontare ma a ogni tentativo, a seconda dell’umore, concludevo che o non avevo talento o non avevo le capacità tecniche adeguate. In genere preferivo questa seconda ipotesi, la prima mi spaventava.

I suoi romanzi sono incentrati sulla vita delle donne, su come le donne reagiscono agli uomini, sia in privato sia in società. Era questo il suo scopo, quando ha deciso di pubblicare i suoi libri? Parlare alle donne di esperienze femminili?
No, non avevo nessun programma, e nemmeno oggi ne ho uno. Decisi di pubblicare “L’amore molesto” solo perché mi sembrava di aver scritto un libro che potevo staccare definitivamente da me senza poi dovermene pentire.

Tra il suo primo libro, “L’amore molesto” e il secondo, “I giorni dell’abbandono” c’è stata una pausa di dieci anni. C’è un motivo particolare per quell’intervallo?
In realtà non c’è stata nessuna pausa. Ho scritto moltissimo, in quei dieci anni, ma niente di cui mi potessi fidare. Erano racconti molto lavorati, molto studiati, ma senza verità.
Nei suoi libri ci sono pochissimi personaggi maschili positivi. La maggior parte degli uomini è debole o presuntuosa o assente o prepotente. Si tratta di un riflesso della società nella quale è cresciuta lei, oppure ciò riflette lo squilibrio di potere tra gli uomini e le donne nella società in generale? Questo squilibrio è migliorato o cambiato negli ultimi anni?
Sono cresciuta in un mondo in cui sembrava normale che gli uomini (padri, fratelli, fidanzati) avessero il diritto di picchiarti per correggerti, per educarti come donna, insomma perché volevano il tuo bene. Oggi molte cose, meno male, sono cambiate, ma continuo a pensare che gli uomini veramente affidabili siano una minoranza. Forse è perché l’ambiente che mi ha formata era particolarmente arretrato. O forse (e io credo di più a questa seconda possibilità) è perché il potere maschile, che sia esercitato in modo rozzo o con garbo, continua a volerci subordinare. Troppe donne sono umiliate ogni giorno e non solo sul piano simbolico. E troppe, nella realtà, sono punite per le loro insubordinazioni anche con la morte.

Sembra che i suoi romanzi abbiano a che vedere con i limiti – emotivi, geografici, sociali – e con ciò che accade quando li si varca o li si abbatte. Pensa che ciò riguarda in particolare le donne di una certa età o classe sociale, oppure è un fenomeno che riguarda tutti?
Intorno alle donne si continuano a tracciare perimetri, e parlo delle donne in generale. Niente di male se si trattasse di una autoregolamentazione: i limiti sono importanti. Il problema è che non solo i limiti sono fissati da altri, ma noi stesse, se non li rispettiamo, ci sentiamo in colpa. Lo sconfinamento maschile non comporta automaticamente un giudizio negativo, è in linea di massima segno di curiosità, di audacia. Lo sconfinamento femminile ancora oggi, specialmente se non si compie sotto la guida o il comando di uomini, disorienta: è perdita di femminilità, è eccesso, è perversione, è malattia.

Lei parla di personaggi che “si disfano” o “si dissolvono”, un modo come un altro per descrivere il loro crollo emotivo. Si tratta di una sensazione che riconosce in lei stessa? E negli altri?
L’ho visto in mia madre, in me, in non poche amiche. Sperimentiamo troppi vincoli che strozzano desideri e ambizioni. Il mondo contemporaneo ci sottopone a pressioni che a volte non riusciamo a reggere.

Le donne dei suoi romanzi, le voci narranti, giudicano ardua la maternità, che le divora e le prostra. Vorrebbero sottrarvisi e, quando lo fanno, si sentono liberate. Pensa che le donne sarebbero più forti se non avessero figli e se non dovessero portare il peso fisico ed emotivo della maternità?
No, non è questo il punto. Il punto è come ci raccontiamo la maternità e la cura dei figli. Se si continua a parlarne solo in modo idilliaco, come nei manuali tipo ‘Sarò madre’, continueremo a sentirci sole e colpevoli quando sfioreremo i lati frustranti di quell’esperienza. Il compito di una donna che scrive, oggi, non è fermarsi ai piaceri del corpo gravido, del parto, della cura dei figli, ma andare con verità fino al fondo più buio.

I romanzi napoletani presentano somiglianze di personaggi e di trama con i suoi tre romanzi precedenti. Per certi aspetti raccontano la stessa storia?
Non la stessa storia, ma sicuramente gli stessi snodi di un malessere. Le ferite dell’esistenza sono inguaribili e ne scrivi e ne riscrivi sperando di essere capace presto o tardi di costruire una storia che ne dia definitivamente conto.

Dobbiamo concludere che questa è la sua storia – come fanno chiaramente i lettori – oppure la loro è solo mancanza di immaginazione, un sintomo della moda contemporanea che consiste nel cercare sempre qualcosa dell’autore in una sua opera?
I quattro volumi dell’Amica geniale sono la mia storia, certo, ma solo nel senso che sono stata io ad assegnarle la forma del romanzo e a usare le mie esperienze di vita per nutrire di verità l’invenzione letteraria. Se avessi voluto raccontare i fatti miei, avrei stabilito un altro tipo di patto col lettore, gli avrei segnalato che si trattava di un’autobiografia. Non ho scelto la via autobiografica né la sceglierò in seguito, perché sono convinta che la finzione, se ben lavorata, è più carica di verità.

Ci può spiegare perché ha deciso di tenere segreta la sua identità – di mantenere questa “assenza”, come ha detto, rispetto al mondo editoriale e alla promozione dei suoi libri?
Ritengo che sia un errore, oggi, non tutelare la scrittura garantendole uno spazio autonomo, lontano dalle logiche dei media come del mercato. La mia piccola battaglia culturale, che dura da quasi venticinque anni, si rivolge soprattutto ai lettori. Penso che l’autore vada cercato non nella persona fisica di chi scrive, non nella sua vita privata, ma nei libri che ne portano la firma. Fuori dei testi e delle loro strategie espressive c’è solo chiacchiera. Restituiamo vera centralità al libro e poi, se è il caso, discuteremo degli usi possibili della chiacchiera a scopo promozionale.

Pensa che la fama può arrecare sempre danni all’opera di uno scrittore, o all’opera di qualsiasi persona creativa?
Non lo so. Credo semplicemente che oggi sia un errore lasciare che la propria persona diventi più nota della propria opera.

I suoi familiari e amici sanno che è lei l’autrice dei suoi romanzi? Ci sono persone che ritiene possano risentirsi o renderle la vita difficile, qualora la sua identità di autrice dei romanzi fosse resa nota?
All’inizio temevo di far soffrire persone a cui volevo bene. Adesso no, non sento più il bisogno di proteggere coloro che amo. Sanno che scrivere è la mia vita e mi lasciano nel mio angolino. L’unico patto è che io non faccia niente che li faccia vergognare.

Come collabora con la sua traduttrice in lingua inglese, Ann Goldstein? Vi parlate? Comunicate per posta elettronica? É in grado di valutare se la voce che sgorga dalle sue opere tradotte è proprio la sua “vera” voce?
Mi fido totalmente di lei. Ritengo che abbia fatto il possibile per accogliere con le migliori intenzioni il mio italiano nel suo inglese.

Una delle sue autocritiche – al riguardo de “I giorni dell’abbandono” – è il timore che alcune parti possano avere “soltanto l’apparenza della buona scrittura”. Qual è per lei la differenza tra “buona” scrittura e “vera scrittura”, o quanto meno il tipo di scrittura che lei ritiene di poter produrre quando lavora al meglio?
Una pagina è ben scritta quando la fatica e il piacere di raccontare con verità hanno avuto la meglio su qualsiasi altra preoccupazione, anche la preoccupazione dell’eleganza formale. Appartengo alla categoria di chi butta via la bella copia e salva la brutta, se questa assicura maggiore autenticità.

Parlando di se stessa e delle scrittrici di oggi, lei ha detto che “dobbiamo scavare nel profondo della nostra diversità usando strumenti all’avanguardia”. Ci sono altri scrittori che fanno altrettanto? Può darci qualche esempio di scrittrici che ammira, o di scrittori in generale?
L’elenco sarebbe troppo lungo, me lo risparmi. Il paesaggio della scrittura femminile oggi è ampio e molto mosso. Leggo moltissimo e amo soprattutto le pagine che mi fanno esclamare: ecco cosa non sarai mai capace di fare. Con quelle vado mettendo insieme una mia personale antologia del rammarico.

So che, dopo aver letto i suoi libri, molte donne le scrivono. Gli uomini lo fanno?
In principio erano più uomini che donne. Oggi prevalgono le donne.

Quando finalmente ha pubblicato un libro, le serve un periodo di riposo per recuperare? Ha periodi di scarsa attività?
No. Ho sempre qualcosa in mente che mi infastidisce e scriverne mi mette di buonumore.

Lei ha detto che rivelare la sua identità adesso sarebbe “deplorevolmente incongruo”. Ma non si sente sotto pressione per il suo successo? Che cosa prova quando entra in una libreria o un aeroporto e vede pareti intere piene di suoi libri in vendita?
Evito con cura spettacoli del genere. La pubblicazione mi ha sempre dato ansia. Il mio testo riprodotto in migliaia di copie mi sembra una forma di presunzione, mi fa sentire in colpa.

Non prova mai la sensazione che poco alla volta le sia estorta la sua identità? Per alcuni giornalisti letterari, rivelare la sua identità sarebbe un vero scoop.
Uno scoop? Che sciocchezza. A chi può interessare ciò che resta di me fuori dei libri? Mi sembra già troppo che ci si occupi di quelli.

Lei ha detto che Elena – il personaggio dei romanzi napoletani – non potrebbe esistere come scrittrice senza il personaggio di Lila. Ciò vale anche per lei?
Sento la scrittura come se fosse motivata e nutrita dagli urti casuali tra la mia vita e quella degli altri. In questo senso, sì, penso che non scriverei più se diventassi impermeabile, se gli altri non mettessero disordine dentro di me.

Sta scrivendo un altro libro?
Sì, ma dubito – in questo momento – che lo pubblicherò.
Traduzione di Anna Bissanti – Le risposte nell’intervista sono proposte nel testo originario italiano

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