9 Gennaio 2013
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Io sono stata ferita, non il mio onore (I Was Wounded; My Honor Wasn’t)

Sohaila Abdulali (per The New York Times, 7.1.2013, trad. Maria G. Di Rienzo)

Trentadue anni fa, quando avevo 17 anni e vivevo a Bombay, ho subito uno stupro di gruppo e sono stata quasi uccisa. Tre anni più tardi, oltraggiata dal silenzio e dalle false credenze sullo stupro, scrissi un veemente saggio, firmandolo con il mio nome, in cui descrivevo la mia esperienza, per una rivista indiana delle donne. Creò dibattito nel movimento delle donne (e nella mia famiglia) e poi scomparve quietamente. La scorsa settimana ho dato un’occhiata alla mia posta elettronica ed era là. Come parte delle manifestazioni dell’oltraggio pubblico, dopo lo stupro e la morte di una giovane donna a Delhi, qualcuno aveva postato l’articolo online ed esso era diventato “virale”. Da allora, ho ricevuto un diluvio di messaggi che mi esprimono sostegno.
Non è esattamente piacevole essere un simbolo di stupro. Non sono un’esperta, né rappresento tutte le vittime di violenza sessuale. Tutto ciò che posso offrire, a differenza della giovane che è morta in dicembre dopo aver subito un brutale stupro di gruppo e di molte altre, è che la mia storia non è finita, e che io posso continuare a raccontarla. Quando ho lottato per sopravvivere, quella notte, a stento sapevo per cosa stavo lottando. Un amico e io eravamo andati a passeggiare sulla montagna, accanto a casa mia. Quattro uomini armati ci catturarono, ci costrinsero a scalare sino a raggiungere un punto appartato, dove mi stuprarono per ore ed ore e picchiarono entrambi. Discussero fra loro se ucciderci o no, e infine ci lasciarono andare.
A 17 anni, ero solo una ragazzina. La vita mi ha ricompensato riccamente per essere sopravvissuta. Ho zoppicato sino a casa, ferita e traumatizzata, dove mi aspettava una famiglia favolosa. Avendola al mio fianco, molto altro è arrivato a me. Ho trovato un amore vero. Ho scritto libri. Ho visto un canguro nel suo ambiente naturale. Ho preso autobus e ho perso treni. Ho avuto una splendida bambina. Il secolo è cambiato. Il mio primo capello grigio è apparso. Troppe altre non faranno mai queste esperienze. Non vedranno mai miglioramenti, non vedranno il giorno in cui quell’episodio non è più il punto centrale della tua esistenza. Un giorno scopri che non ti guardi più alle spalle, temendo che ogni gruppo di uomini ti aggredisca. Un giorno ti metti una sciarpa attorno al collo senza che spunti il ricordo di essere stata stretta alla gola. Un giorno non hai più paura.
Lo stupro è orribile. Ma non è orribile per tutte le ragioni che sono state conficcate nelle teste delle donne indiane. È orribile perché sei violata, sei terrorizzata, perché qualcun altro prende il controllo del tuo corpo e ti ferisce nel più profondo dei modi. Non è orribile perché hai perduto la tua “virtù”. Non è orribile perché tuo padre e tuo fratello sono disonorati. Io rigetto la nozione che la mia virtù risieda nella mia vagina, così come rigetto la nozione che il cervello di un uomo stia nei suoi genitali. Se togliessimo l’onore dall’equazione, lo stupro resterebbe certo orribile, ma sarebbe un orrore personale, non di gruppo, e noi saremmo in grado di dare alle donne che sono state assalite ciò di cui hanno davvero bisogno: l’empatia necessaria ad andare oltre un tremendo trauma, non il mucchio di stupidaggini sul provare colpa e vergogna. La settimana dopo che ero stata aggredita, udii la storia di una donna che era stata violentata in un sobborgo vicino. Andò a casa, entrò in cucina, si diede fuoco e morì. La persona che mi raccontò la storia era piena di ammirazione per questa donna, perché non era stata “egoista” e aveva preservato l’onore di suo marito. Grazie ai miei genitori, io questo non l’ho mai capito.
La legge deve fornire pene reali per gli stupratori e protezione per le vittime, ma solo le famiglie e le comunità possono dare empatia e sostegno. Come può un’adolescente perseguire legalmente il suo stupratore se la sua famiglia non è dietro di lei? Come può una moglie denunciare il suo assalitore, se suo marito pensa che l’aggressione sia più un affronto per lui, che una violazione per lei? Quando avevo 17 anni, pensavo che essere ferita ed umiliata in modo così doloroso fosse la cosa più spaventosa che poteva accadermi. Adesso che ne ho 49, so che mi sbagliavo: la cosa più spaventosa è immaginare sia ferita ed umiliata la mia bambina di 11 anni. Non per l’onore della famiglia, ma perché lei ha fiducia nel mondo e mi fa infinitamente male pensare che possa perdere questa fiducia. Se guardo indietro, non è la me stessa diciassettenne che voglio confortare, ma i miei genitori: quelli che hanno fatto il duro lavoro di raccogliere i pezzi.
Ecco dove sta il lavoro che dobbiamo fare, noi che stiamo crescendo la prossima generazione. Dobbiamo insegnare ai nostri figli e alle nostre figlie a diventare persone adulte libere e rispettose, consapevoli che gli uomini che feriscono le donne stanno facendo una scelta, e devono essere puniti. Quando avevo 17 anni non potevo neppure immaginare che migliaia di persone manifestassero contro lo stupro in India, ma questo abbiamo visto nelle settimane passate. Pure, c’è ancora molto da fare. Abbiamo speso generazioni a costruire elaborati sistemi patriarcali, diseguaglianze di casta, sociali, e di genere, che permettono all’abuso di fiorire. Lo stupro non è inevitabile come il tempo atmosferico. Dobbiamo buttar via tutto il chiacchierio sull’onore, la virtù, e “lei lo ha provocato” e “lui non ha potuto trattenersi”. Dobbiamo dare la responsabilità a chi ce l’ha: gli uomini che violano le donne e tutti quelli di noi che li scusano puntando i loro indici accusatori sulle vittime.

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