5 Febbraio 2014
la Repubblica

Joan Didion. La signora che sa descrivere il vento

 di Edoardo Nesi

 

Rispettata e amata negli Stati Uniti tanto da aver ricevuto nello scorso giugno dalle mani di Barack Obama la National Humanities Medal, la fragile, superba, splendida ottantenne Joan Didion è una delle maggiori scrittrici americane in attività – secondo me di gran lunga la migliore – e una delle tante manchevolezze dell’editoria italiana è certamente quella di non aver mai saputo presentare e valorizzare le sue opere, che fino a poco tempo fa erano introvabili nelle nostre librerie come se invece d’esser libri fossero gioielli e costassero quanto gioielli; come se i librai, invece di venderle, ne imboscassero e tesaurizzassero le copie. Bene, dunque, anzi benissimo ha fatto il Saggiatore ad avviare a ripubblicarne l’opera omnia, così come e/o che ha da poco ristampato il Book of Common Prayer con il titolo Diglielo da parte mia.

Incaponito a volerla conoscere, incurante dell’incomprensibile embargo editoriale che sembrava esserle stato imposto in Italia, nel corso degli anni mi sono letto in inglese ogni suo libro, avviando dallo straordinario Democracy, forse il suo romanzo migliore, la cui lettura ero spesso costretto a interrompere per fermarmi a riflettere, colmo d’ammirazione per un passaggio particolarmente brillante, spesso commosso dalla bellezza pura delle parole. Ho spesso desiderato di poterla tradurre, Joan Didion, perché sono pochi gli autori o le autrici il cui stile ponga una sfida così grande a quel coraggioso, spesso disperato tentativo di onorare la letteratura che è la traduzione.

Non sono mai stato capace di decidere se dell’opera narrativa di Joan Didion ammiro più l’esattezza chirurgica dello stile o il distante calore delle lievi, sospese trame; le esemplari descrizioni dei cieli e del sole e delle albe o la glaciale delicatezza con cui sa raccontare il dolore che riempie le tenere e durissime storie d’amore perduto che sempre riempiono e definiscono le sue eroine – perché, com’è giusto, è sempre una donna il personaggio più importante dei suoi romanzi.

Non sono nemmeno sicuro di riuscire a dire se ammiro di più il multiforme complesso della sua opera narrativa o il suo prezioso lavoro giornalistico, del quale vi raccomando di leggere almeno quei luminosi, californianissimi saggi della raccolta Verso Betlemme che scrisse nel 1965, mentre viveva a San Francisco, nel quartiere di Haight-Ashbury, nei quali già raccontava la fine della sventata epopea psichedelica dei figli dei fiori; o ancora la lancinante capacità di raccontare dal vero, e pressoché in diretta, il lavorio muto di un’anima straziata dal dolore del lutto – la sua, colpita nel corso di due anni prima dalla morte del marito, lo scrittore John Griffin Dunne, e poi da quelle della figlia Quintana – che ha dimostrato in quest’ultimo decennio, già settantenne, prima in quel capolavoro assoluto che è L’anno del pensiero magico, e poi nel successivo, bellissimo Blue Nights.

Joan Didion scrive meravigliosamente bene – meglio, credetemi, di quasi tutti gli autori e di quasi tutte le autrici contemporanee per i quali vengono sprecate lodi cieche e sperticate – sostenuta com’è non solo dal talento altissimo, ma anche da una capacità di controllo dello stile che è il risultato di un labor limae durissimo e inesausto, e costituisce una lezione e un esempio per chiunque voglia scrivere: è lei stessa, infatti, a raccontarci dei lunghi mesi passati a limare, soppesare, tagliare e aggiungere, e tagliare di nuovo e aggiungere di nuovo, in una sacra, umile ricerca dell’unica parola che possa soddisfarla e consentirle di procedere nella scrittura.

Solo con l’aiuto di questa disciplina, forse, si può riuscire a raccontare un vento come fosse un personaggio: il Santa Ana, che ogni tanto «scende gemendo dal Nordest e alza tempeste di sabbia sulla Route 66, e prosciuga le colline e i nervi», e porta con sé «un caldo surreale» , e ingiallisce il cielo e crea gli incendi e «rende malevole le persone e persino i bambini» .

Solo così si può riuscire a spiegare che «vivere senza rispetto di sé vuol dire rimanere svegli di notte senza poter contare sull¿aiuto del latte tiepido o del Phenobarbital o della mano addormentata dell’amato sul copriletto, a contare i peccati commessi e omessi, le fiducie tradite, le promesse sottilmente infrante, i talenti irrevocabilmente sprecati per accidia o codardia o negligenza».

Prendila così,la traduzione battistiana del titolo originale Play As It Lays, è il secondo romanzo di Joan Didion, ed esce in questi giorni per i tipi de Il Saggiatore. È un libro formidabile, composto di brevi, a volte brevissimi capitoli scritti con uno stile che riesce a essere – spesso nella stessa pagina – gelido e struggente, sublime e durissimo. Maria, la protagonista, è un personaggio che rimarrà con voi a lungo se sceglierete di seguirla mentre percorre in automobile le strade di Hollywood e le avenue di Las Vegas e le autostrade del deserto del Mojave, e intanto vive la sua vita persa. È l’America della frontiera, del sogno tradito, quella in cui si muove Maria: la stessa America di Paura e disgusto a Las Vegas di Hunter Thompson, eppure infinitamente diversa e infinitamente meglio raccontata.

Oltre a essere una splendida, rarefatta, raffinatissima trattazione del vuoto e dell’ennui, della noia, Prendila così è anche un romanzo duro e potente, capace di anticipare quella tendenza minimalista che si affermò quindici anni dopo in America e in tutto il mondo grazie a Bret Easton Ellis e al suo Meno di zero, che per sua stessa ammissione deve molto all’opera di Joan Didion, e soprattutto a questo libro, in cui si può leggere: «Era l’ora in cui in ogni casa del vicinato le belle donne si profumavano e si infilavano i braccialetti di smalto e davano il bacio della buonanotte ai loro bei bambini, l’ora della grazia apparente e della musica promessa, e nel giardino di Maria l’aria sapeva di gelsomino e l’acqua della piscina toccava i trenta gradi ».

 (la Repubblica, 05/02/2014)

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