25 Aprile 2014
Il Quotidiano della Calabria

La Chiesa, anche nel rapporto con le mafie, si faccia aiutare dalle donne

di Franca Fortunato

La vicenda del commissariamento dell’Affruntata a San Onofrio e Stefanaconi, due paesini del Vibonese, decisa dal comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza per infiltrazioni mafiose, ripropone l’antico, e molte volte discusso, rapporto della chiesa con gli uomini della ‘ndrangheta, e non solo. Un rapporto indagato nella sua radicalità da Isaia Sales nel suo libro I preti e i mafiosi, dove viene messo bene in evidenza come «non si conoscono mafiosi, camorristi e ‘ndranghetisti atei o anticlericali. Sono cattolici osservanti. Credono in Dio, nella Chiesa di Roma, vanno a messa, si comunicano, fanno battezzare i loro figli, fanno fare loro la comunione, si sposano con rito religioso (anche quando sono latitanti), fanno da padrini di cresima ai tanti che glielo chiedono, ricevono l’estrema unzione se muoiono nel loro letto e pretendono il funerale religioso, sono i massimi benefattori di molte parrocchie, organizzano le feste dedicate ai santi patroni e li si vede in prima fila nelle processioni… Sono ferventi devoti, a volte ferventi cattolici… Spesso hanno studiato dai preti o dalle suore, hanno servito messa, sono stati al catechismo. Qualcuno voleva farsi prete, altri hanno vissuto nella stessa casa con zii o fratelli sacerdoti».

Come è (stato) possibile tutto questo? Come è (stato) possibile che una religione antiviolenta venisse usata come suggello e giustificazione da parte di spietati assassini? Questioni non ancora indagate dalla chiesa, forse perché porterebbero a un ripensamento radicale della propria storia, della propria dottrina e teologia. Il problema, infatti, non è tanto e solo la condanna dei mafiosi nelle omelie, il prenderne le distanze e combatterli sul piano della “legalità”, cosa che molti preti già fanno e che hanno fatto, pagando a volte con la propria vita, ma il problema è ancora più radicale, si tratta di togliere ai mafiosi l’humus culturale religioso, in cui hanno trovato legittimazione e sostegno comportamenti, usanze, idee che loro hanno piegato al crimine. Mi riferisco in primo luogo agli insegnamenti religiosi sulla famiglia e la morale sessuale, a cui i mafiosi hanno fatto sempre riferimento e che hanno “onorato” a modo loro, uccidendo la donna che non obbedisce a quegli insegnamenti. La cultura mafiosa e quella religiosa della chiesa hanno molto in comune, in quanto entrambe sono nate e cresciute dentro il patriarcato, un sistema simbolico e sociale androcentrico, fondato sul dominio dell’uomo sulla donna. Nessuno come i mafiosi ha fatto degli insegnamenti della chiesa sulla moralità sessuale il punto di riferimento delle proprie relazioni con le donne della famiglia.

È la storia di tante donne dentro le mafie. È la storia di Giuseppina Pesce, Lea Garofalo, Maria Concetta Cacciola e tante altre che hanno osato abbandonare quegli insegnamenti in nome di qualcosa di superiore, la libertà di vivere a partire dal proprio desiderio. Questo non vuol dire che la chiesa ha creato i mafiosi, ma che la storia delle mafie nel Mezzogiorno è intrecciata a quella religiosa della chiesa più di quanto si possa pensare. Come può la chiesa in Calabria pensare di diventare la “Chiesa missionaria” di papa Francesco, senza avere alle spalle un ripensamento radicale della propria storia e della propria dottrina? Come può non ripensare uno dei cardini di quella dottrina qual è il pentimento? «La violazione di alcuni comandamenti (non ammazzare, non rubare) – scrive Isaia nel suo libro – non rende necessario riparare l’ingiustizia commessa e il dolore procurato intervenendo con atti concreti in modo da attenuare o annullare gli effetti negativi dei propri misfatti. L’ingiustizia compiuta e il danno arrecato non implicano obblighi nei confronti delle vittime. È solo l’autorità religiosa che ha il potere di liberarci dal peso degli errori commessi. Lo strumento è la confessione e il prete ne è il tramite. La colpa, dunque, non è mai colpa verso gli altri, verso la società, la collettività, lo Stato e le sue leggi, ma innanzitutto è colpa verso Dio… Alla chiesa è sufficiente il pentimento interiore… il principio è che bisogna riparare nei confronti della chiesa ma non nei confronti della vittima… La chiesa ha lasciato intendere con il suo messaggio che c’è un Dio con il quale si può negoziare in via privata la salvezza della propria anima senza dover passare attraverso un recupero del danno, arrecato socialmente e collettivamente sopportato. È a questo Dio che sono votati i mafiosi e hanno trovato nei preti e nella chiesa un avallo a questa loro idea». Non è forse lo stesso messaggio contenuto nell’omelia di domenica di Pasqua a Sant’Onofrio del vescovo di Mileto Luigi Renzo, quando ha affermato: «La legge deve tutelare l’ordine pubblico del vivere civile, la Chiesa ha il vangelo e la sua legge è la misericordia ed il perdono come ci ha insegnato Gesù, al fine di recuperare le coscienze e salvare l’anima»? «Vi perdono ma inginocchiatevi», inginocchiatevi davanti a Dio e alle vostre vittime, è il messaggio, invece, lanciato in chiesa da Rosaria Schifani, vedova di uno degli agenti morti nella strage di Capaci, il giorno dei funerali nella Cattedrale di Palermo. La chiesa, anche nel rapporto con le mafie, impari ad ascoltare veramente le donne e si faccia aiutare da loro.


(Il Quotidiano della Calabria, 25.04.2014)

Print Friendly, PDF & Email