25 Novembre 2015

La costituzionalista Silvia Niccolai interviene sulla questione dell’utero in affitto

di Silvia Niccolai

 

L’articolo di Muraro sulla maternità surrogata, apparso su L’Avvenire del 12 novembre, è molto importante per me e vorrei provare a dire perché.

Le odierne discussioni intorno alla genitorialità omosessuale (in cui il tema della maternità surrogata è ricompreso e stemperato) sono costruite, o presentate all’opinione pubblica, come se esistesse una sola alternativa: da una parte il progressismo (per definizione illuminato, amante dell’eguaglianza, della libertà ecc.) dall’altra il conservatorismo (per definizione cattolico, omofobo, repressivo). Non manca qualcosa? Sì, manca tantissimo: manca il tener conto del fatto che la discussione intorno alla omogenitorialità non accade in un tempo senza tempo eternamente uguale e abitato da contrapposizioni manichee, ma accade oggi, e cioè dopo il femminismo, l’avvento della libertà femminile: in un tempo in cui le donne si sono prese ed esercitano la loro facoltà di giudizio, nel mondo, rispetto a altre donne, rispetto agli uomini. Grazie a Muraro per averlo ricordato! Uscire da quell’alternativa soffocante rimette in gioco libertà, quella di pensare con la mia testa di donna, con una genealogia di pensieri e pratiche femminili, che sono nate rompendo quelle finte alternative, e dando ad esse significati nuovi e imprevisti. Di certo, per non farsene più soggiogare, tanto meno per accreditarle.

Una cosa che ho imparato dal pensiero delle donne è leggere la realtà attraverso il conflitto tra i sessi. C’è conflitto tra i sessi nella questione dell’omogenitorialità? Sarebbe utile discuterne a partire da questa prospettiva? Io penso di sì. Si potrebbe scorgere, nominare e far problema di un desiderio maschile di fare come se la potenza procreativa delle donne non ci fosse, surrogandola, per l’appunto, e rieditando così immagini di un femminile platealmente tutto interno a una logica patriarcale: il fornetto o la santa che ama fare figli per gli altri. Una logica che esprime (forse non solo, ma certamente anche) l’eterno desiderio maschile di controllo del corpo delle donne, che oggi si ripresenta nella veste ultramoderna della sincronizzazione delle mestruazioni tra la donatrice di gameti e la ‘portatrice’, e in quella molto, molto più antica della subordinazione della decisione abortiva alla volontà dei committenti. Riportare una misura femminile in un discorso che, come ogni discorso neutralizzante, nega che, in tutte le cose, un conto è essere un uomo, un conto è essere una donna darebbe probabilmente un po’ di misura agli uomini, e certamente rafforzerebbe le donne. La rivendicazione universalizzante e neutralizzatrice di un diritto ‘delle persone omosessuali alla genitorialità’, nasconde, per esempio, che gli interessi degli omosessuali maschi e delle lesbiche non sono affatto uguali, ma spesso opposti: le donne, proprio perché partoriscono, godono di privilegi molto grandi rispetto ai ‘padri biologici’ quali sono i padri gay, e che rendono la strada della famiglia lesbica più fattibile di quella della famiglia gay, e composta, in ogni caso, di esigenze diverse. La narrazione, neutra, della genitorialità omosessuale, veramente non è favorevole a fare emergere quel desiderio di maternità indipendente che parla, e si mostra già liberamente, in tante lesbiche e in tante eterosessuali. Chi come me fosse abituata a leggere i repertori di giurisprudenza, saprebbe che la parte assegnata, in quella narrazione, alle madri lesbiche è forse più insidiosa, per la libertà femminile, della stessa maternità surrogata. Ricordo due casi: la donna lesbica che vuole adottare, anche se la compagna non lo vuole, per farsi rispondere (e far dire così a tutto il mondo) che per un bambino è sempre meglio avere una famiglia che una madre sola, con buona pace per tutta la libertà che le donne hanno conquistato, di essere madri fuori dal matrimonio; la lesbica che, separatasi dalla compagna, chiede e ottiene il mantenimento dal padre biologico, e ottiene così di far risuonare ad alta voce che della madre forse sì, ma certo del padre non si può fare a meno. Sono le immagini di un femminile rivendicativo e confuso, che non sa mettere ordine nelle sue relazioni. Lo conosciamo: è quello da cui nasce la necessità della Legge del Padre. Improvvisamente ci stiamo comode?

Non credo, credo piuttosto che se si guarda la questione della ‘genitorialità omosessuale’ con la lente del conflitto tra i sessi, viene fuori tanto; di certo, lo so per esperienza, viene fuori il disagio femminile e lesbico (e ve ne è) a lasciarsi trascinare nell’ennesima battaglia che altri conduce per sé sul corpo delle donne. Non lo so, ma penso che farlo potrebbe venirne anche un incoraggiamento, per gli uomini, a domandarsi: che cosa è che davvero cerchiamo, in questa battaglia? Potrebbero sentirsi spinti a chiederlo alle donne, che probabilmente lo vedono meglio di loro.

Insorge però una questione: si può parlare di confitto tra i sessi, o non è questo un arnese concettuale fuori moda? Parlarne suppone la differenza sessuale, nozione accusata di fondamentalismo, eresia o noioso passatismo: non sai che anche il sesso è costrutto sociale? Se vuoi parlare nei convegni internazionali la differenza sessuale te la devi scordare, il conflitto tra i sessi lo devi buttar dalla finestra. Ma il nostro non era un femminile così piccolo, meschino e ancillare da gloriarsi di stare dentro ‘un panel’ e far curriculum, anche questa è una cosa che ringrazio Muraro – che la differenza sessuale ha insegnato a tutte e tutti – di averci ricordato. Non era nemmeno un femminismo così ingenuo, o superficiale (qualche volta: così ignorante?), da non accorgersi che accodarsi a quel conformismo culturale significa rinunciare a discutere cose importanti per le donne e per tutti. La visione presupposta dalla rivendicazione universalistica alla genitorialità omosessuale può, infatti, essere alleata a una idea del soggetto profondamente riduttiva, che lo vede, cioè, come interamente macchinato dai costrutti sociali che lo occupano, e ridotto perciò a oggetto. Questa è in effetti la visione che ci ha dato, in molti suoi percorsi, il costruttivismo sociologico e filosofico. Negando la differenza sessuale si può finire per accreditare un umano privo di trascendenza. Da laica, anzi da atea, trovo per questo importante che Muraro abbia rilasciato la sua intervista a un giornale cattolico: perché il pensiero cattolico, con le sue radici coscienzialiste, è stato e rimane uno che avverte in modo particolarmente forte le derive di una società de-individualizzata e che nega la libertà e la verità come capacità dell’io di porsi in una dialettica con le cose come stanno, con la realtà data, e mettersi in cerca di altro. Il femminismo che Muraro ci ha ricordato è uno che dice quello che ha da dire, non si pone certo il problema se sa di chiesa o se piace o dispiace a una certa parte politica.

E perché lo fa? Perché ha questo coraggio? Perché ha a cuore la realtà. E se la guardiamo, la realtà, vediamo che ogni essere umano si ribella alla sola idea di essere un mero costrutto sociale. Ce lo dice del resto, in falsariga, la stessa rivendicazione alla genitorialità omosessuale, che, fondata ‘teoreticamente’ o difesa in punto di concetto sulla contestazione dei ‘ruoli di genere’ (e cioè sull’accettazione che la persona è solo un costrutto sociale), spesso sfocia, nell’esperienza dei singoli e delle singole, in un grido a essere veramente se stessi, riconosciuti per quel che si è.

È un fatto, questo, meglio: è una contraddizione, di cui bisognerebbe approfittare, e farvi forza, perché è interessante e feconda: si tratta di un grande punto di apertura e di contatto tra il desiderio di uomini e donne omosessuali di avere figli e quel pensiero e esperienza delle donne che non ha mai rinunciato al presupposto di una soggettività desiderante, creativa e in relazione con altre e con altri in un mondo comune, chiarendo che quella soggettività è resa tale dalla nascita sessuata. Un pensiero femminile che è partito da lì può permettersi, oggi, di chiamare la rivendicazione alla ‘genitorialità omosessuale’ a meditare su di sé: se esiste un soggetto alla ricerca della sua verità, perché già ne porta una, un inizio, allora la persona umana esiste prima dei costrutti sociali; ovverosia col suo sesso.

Imboccare questa via ci riporterebbe tutte e tutti dritti a ridiscutere del materno, che a me pare la vera posta in gioco della contesa intorno alla ‘genitorialità omosessuale’, molto, molto di più della ‘famiglia tradizionale’, che tra l’altro, benché io sia sposata, non ho particolarmente a cuore e considero un tema messo lì apposta per non vedere ciò di cui realmente si tratta. Il materno, questo è il più grande insegnamento che ho ricevuto dal pensiero della differenza sessuale, è ciò che ci tiene prossimi a una consapevolezza fondativa: ciò che è diverso e asimmetrico c’è, esiste proprio, non possiamo negarlo, perché c’è la madre. Questa consapevolezza è sempre benefica. Come giurista, ne vedo un particolare beneficio: quello di evitare gli abusi della razionalità così fratelli (è il caso di dirlo) alle logiche paritarie quali quelle che ispirano la rivendicazione universalistica alla omogenitorialità, dove ricorrono con frequenza sintomatica argomentazioni ispirate ad abusi sofistici della razionalità. Cito, ad esempio, un autorevole collega americano: siccome le coppie omosessuali sono più esposte di quelle etero che pure abbiano concepito per via artificiale al rischio che i figli se ne accorgano e vadano a cercare le loro origini biologiche, facciamo così, per rimettere le cose in pari: stabiliamo che per tutti i nati da fecondazione assistita esistano registri attivi che a 18 anni vanno a rivelare loro che non sono i figli dei loro genitori, sia etero che omosessuali. Vi fa paura? Ok, allora limitiamo il diritto dei figli delle coppie omosessuali a conoscere le loro origini! Basta che ci rimettiamo tutti in pari. Siccome le lesbiche avrebbero interesse a vedere ridurre i diritti dei padri biologici, ma questo va contro gli interessi dei gay, facciamo che per tutti, etero lesbiche e gay la genitorialità sia sancita da accordi pre-nascita, onde non discriminare i gay.

La logica paritaria cade tipicamente in questo tipo di abusi perché riduce la giustizia a un problema quantitativo: ti do tanto per tanto. Risale ai tempi di Pitagora e si chiama vendetta. Si chiama anche paura: paura dell’affrontare la grande sfida, parte integrante del vivere insieme, di una giustizia che non elude la sua natura qualitativa, ossia controversa, opinabile, problematica: giusto non è trattare tutti allo stesso modo, ma in modo eguale l’eguale e diverso il diverso. Come si fa a sapere che cosa è uguale e cosa è diverso? Questa è la sfida, che ci tiene insieme, che fa della vita sociale una ricerca, non l’esecuzione di un piano, e che tiene l’essere umano in contatto con i suoi limiti, i limiti della sua razionalità e possibilità di conoscenza, in primo luogo. Il materno ha molto a vedere con questa nostra capacità, di interrogarci intorno al giusto, perché è grazie al materno che nasciamo accompagnati dal senso della differenza, della disparità, del di più; e il problema, il bisogno e la capacità di giustizia, nascono dall’esistenza delle differenze. In un mondo di tutti eguali, non sarebbe neppure nata la scoperta dell’essere umano di potersi interrogare intorno al giusto, e di doverselo chiedere insieme ad altri.

Così si mobilita, dal basso, da sé, l’ordine dato e si rende possibile qualcosa di nuovo e imprevisto. La politica delle donne che ho amato ha sempre pensato in grande; quando ero più giovane si parlava parecchio dell’eredità che essa ci ha lasciato, oggi sono diventata abbastanza anziana per riuscire bene a vederla: è quella a raccogliere la sfida di farlo anche noi, ciascuna dove è e come può, anche se ci può costare l’invito a un convegno, una pubblicazione patinata, o un pochino di consenso.

 

(www.libreriadelledonne.it, 19 novembre 2015)

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