18 Dicembre 2013
il manifesto

La disciplina della gioia

di Alessandra Pigliaru

Scaffale. «Non si può insegnare tutto» di Luisa Muraro, a cura di Riccardo Fanciullacci. Un volumetto che in quattro conversazioni ripercorre il pensiero filosofico e politico dell’autrice

Nella com­plessa let­tura che il pre­sente richiede, il nuovo libro di Luisa Muraro ha un passo riso­luto e allo stesso tempo spiaz­zante. Si inti­tola Non si può inse­gnare tutto (Edi­zione La Scuola, pp. 127, euro 9,50) ed è un pic­colo volu­metto com­po­sto da quat­tro belle con­ver­sa­zioni curate con finezza da Ric­cardo Fan­ciul­lacci, già cura­tore della nuova edi­zione di Tre lezioni sulla dif­fe­renza ses­suale e altri scritti (Ortho­tes). Attra­verso un dia­logo che con­sente agio e rifles­sione, ven­gono riper­corsi alcuni pas­saggi fon­da­men­tali del suo pen­siero e della sua espe­rienza poli­tica. La forma scelta lascia aperta la pos­si­bi­lità di toc­care il movi­mento di ciò che Muraro stessa defi­ni­sce «il labo­ra­to­rio segreto della mente». Sem­bra quasi di poterne visi­tare il peri­me­tro, un andi­ri­vieni che lavo­re­rebbe a sua e a nostra insa­puta per farsi più nitido. Costruendo una tes­si­tura di pen­siero pen­sante sotto il segno costante della radi­ca­lità, la filo­sofa sistema una car­to­gra­fia ener­gica e a tratti emo­zio­nante di reso­conti e aned­doti pri­vati che vanno a pun­tel­lare una sto­ria più grande, quella che ad un certo punto fa irru­zione nella vita di tutte e tutti. Se gli imma­gi­nari posti in cir­colo dal Ses­san­totto in poi non pos­sono essere liqui­dati con bilanci fret­to­losi, è pur vero che resti­tuirne la por­tata attra­verso la pre­senza dei volti incon­trati garan­ti­sce almeno il desi­de­rio di pen­sare alla pre­zio­sità di «gio­vani che si erano messi il mondo nel cuore».

Le espe­rienze di que­gli anni e la rot­tura del fem­mi­ni­smo si decli­nano così in pas­saggi deci­sivi che Muraro ordina come sco­perta di sé e di una pro­messa che la moder­nità non ha saputo man­te­nere con le donne. Il passo al di là da parte del fem­mi­ni­smo o, più  sem­pli­ce­mente, a lato di quella moder­nità che si decise di squa­der­nare defi­ni­ti­va­mente, ha signi­fi­cato uscire dalla scena per man­canza di cor­ri­spon­denza piena. Ma in quest’oggi così poco cre­di­bile cosa ci viene resti­tuito dell’esplorazione di quell’altrove? L’irridere ad un pen­siero di seconda mano ha rac­con­tato che in luogo dell’ideologia le donne hanno pre­fe­rito, per esem­pio, espe­rire un’eccedenza: la libertà fem­mi­nile. Una libertà che deve sapersi misu­rare con il pre­sente e che in qual­che modo sa di sé. La dis­se­mi­na­zione delle pra­ti­che fem­mi­ni­ste non signi­fica che la scom­messa della dif­fe­renza ses­suale ita­liana sia un capi­tolo chiuso o che non la si possa far inter­lo­quire con altre pra­ti­che. Tutt’altro. La poli­tica delle donne che da quarant’anni sot­trae ter­reno al potere e al tor­na­conto, in que­sta sua man­canza di siste­ma­ti­cità resta una risorsa fon­da­men­tale di ulte­riori e pos­si­bili aper­ture, per donne e uomini.

Nello sfondo vivace che Muraro trat­teg­gia, si muo­vono così pen­sieri e rac­conti che hanno ani­mato la sto­ria del secondo Nove­cento ma anche l’avvicinamento alla filo­so­fia che le ha per­messo il rico­no­sci­mento del gesto filo­so­fico come intrin­se­ca­mente rivo­lu­zio­na­rio. Il sug­ge­ri­mento le arriva da Gustavo Bon­ta­dini, ma è lei stessa che se ne fa signora quando per esem­pio avvia la Scuola libera di filo­so­fia all’Università di Verona e quando nella sua ricerca sce­glie di affi­darsi ad una phi­lo­so­phia extra phi­lo­so­phiam in cui spic­cano i grandi testi del pen­siero fem­mi­nile – nar­ra­zioni che scar­di­nano gli stec­cati acca­de­mici e ren­dono il corpo a un sapere spesso algido. In que­sto senso, la lezione dell’antiautoritarismo di Elvio Fachi­nelli si intrec­cia nelle pagine di Muraro con un metodo di inse­gna­mento che possa dirsi già poli­tico nel rigore del desi­de­rio reci­proco dello scam­bio in pre­senza. Degli incon­tri nume­rosi, alcuni sono illu­mi­nati di una spe­ciale signi­fi­ca­zione. Per esem­pio il con­fronto con Luce Iri­ga­ray. E quelli che forse con­tano più di tutti: basti pen­sare a Lia Ciga­rini, con la pra­tica dell’autocoscienza prima e la fon­da­zione della Libre­ria delle donne di Milano così come della comu­nità di Diotima.

Sta di fatto che il libro non ha certo l’ardire di dare rispo­ste ulti­ma­tive ma assume l’incedere di una scrit­tura incal­zante e al con­tempo desi­de­rosa di con­fronto. A farsi spa­zio è in fondo la con­di­vi­sione di un per­corso che possa indi­care un orien­ta­mento pos­si­bile. Un grano di senape che non rac­conta la para­bola del futuro una volta per tutte ma, nella sua irri­du­ci­bi­lità a qual­cosa che lo possa dimi­nuire, dice l’esistenza di qual­cosa che può tra­sfor­marsi. O tra­fig­gere l’ingranaggio del potere. Dipende da quale uso se ne fa.

Il desi­de­rio poli­tico che sot­tende l’architettura di Non si può inse­gnare tutto si depo­sita in effetti in diverse occor­renze. Ce n’è tut­ta­via una in par­ti­co­lare che salda quel «filo di feli­cità» alla «dici­bi­lità del vero» e che è di note­vole inte­resse. Su entrambi gli argo­menti la filo­sofa è tor­nata più volte ma, nel momento di sban­da­mento in cui versa il pre­sente, si impone ad un’attenzione più accu­rata. Sì, per­ché di que­sta feli­cità forse dovrebbe impor­tarci un po’ di più, soprat­tutto se signi­fica il legame genea­lo­gico con qual­cosa di inin­ter­rotto che ci riguarda, donne e uomini. Somi­glia a quella domanda che Cri­stina Campo scri­veva nell’ultima let­tera a Mita «Chi ci inse­gnerà la disci­plina della gioia?». A rispon­derle, sep­pur ideal­mente, potrebbe essere pro­prio la stessa Cla­rice Lispec­tor citata da Muraro, quando dice che «la tra­iet­to­ria siamo noi». Ecco in che modo si com­batte anche per la dici­bi­lità del vero. Nell’insufficienza del mondo non si inau­gura solo un gesto filo­so­fico, lo si capi­sce bene, ma un reale dotato di una con­tin­genza effi­cace, cor­po­rea e sim­bo­lica in que­sti anni anche di alcune espe­rienze maschili, e di una cru­cia­lità che, appunto, non si può inse­gnare ma si deve invece spe­ri­men­tare e rac­con­tare. Sulla soglia di una sto­ria che non rico­no­sce la per­si­stenza della geron­to­cra­zia, per esem­pio, e che pur tut­ta­via non ha vel­leità ento­mo­lo­ghe intorno alle gio­vani gene­ra­zioni, si potrebbe resti­tuire a que­ste quat­tro decise con­ver­sa­zioni il senso di un augu­rio. Che l’avventura più alta e rischiosa, per dirla con Carla Lonzi, siamo noi.

 

Print Friendly, PDF & Email