9 Dicembre 2015
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La donna che insegna ai bambini di periferia a diventare poeti. A Milano le classi di Chandra Livia Candiani

di Nicoletta Moncalero
La prima volta è stata nel 2006, Chandra non era più andata a scuola da quando era finito il suo obbligo. E ancora aveva in mente quei temi che le venivano restituiti con le scritte in blu “fuori tema” a volte anche “gravemente fuori tema”. Prima Chandra Livia Candiani – oggi poetessa – si era sentita spesso fuori posto, lontana da quello che le chiedeva il resto del suo mondo. Forse è per questo che anni dopo, al suo ritorno nei seminari che tiene nelle scuole elementari della periferia milanese, è piaciuta tanto ai bambini. Perché per un po’ è stata una di loro.

“I bambini che ho incontrato io – spiega -, sono bambini mondiali, cioè che vengono dai paesi più diversi del mondo, spesso bambini in fuga o figli di genitori in fuga. Per loro le parole sono un bisogno, una fame di non saper dire solo le cose della sopravvivenza ma anche come si sta dentro di loro. Non è facile partecipare a un seminario di poesia, bisogna accettare di non sapere niente, per questo i più bravi a scuola hanno più difficoltà perché hanno più paura a lasciar cadere i risultati, le sicurezze, i luoghi protetti. Gli asini invece corrono liberi. Spesso dentro a un asino c’è un poeta addormentato e sfiduciato e io cerco di scovarlo con delicatezza. Mi sembra che tutto stia nel vedere i bambini e le bambine più invisibili di tutti. Io sono stata una di loro, così mi è facile notarli per primi”.

Grazie alla perseveranza di Andrea Cirolla, il lavoro di Chandra Livia Candiani e dei suoi piccoli poeti è racchiuso anche in un libro. “Le poesie dei bambini hanno circolato a lungo solo oralmente –racconta Cirolla, curatore editoriale del libro -: capitava che Chandra le leggesse in casa sua oppure al telefono. A un certo punto, saranno stati cinque anni fa, le ho proposto di pubblicarle: mi oppose un no categorico, per un istinto di protezione verso i bambini. Ho accettato la sua scelta, ma non mi sono dato per vinto, così, insisti e insisti, sono riuscito a convincerla. Sono poesie tutt’altro che accomodanti, direi che sono l’esatto contrario, che sono scomode, non addomesticate”.

Ne abbiamo parlato direttamente con Chandra Livia Candiani.

Come l’hanno accolta i bambini?

Ero ben disposta e molto molto ingenua. Ai bambini sono piaciuta quasi subito, ho dovuto superare alcune prove: sguardi come lame, osservazione puntigliosa delle mie scarpe, dei capelli e dei vestiti e anche tantissimo della voce, che ho molto infantile. Credo di essergli piaciuta perché sono spoglia, parecchio indifesa, ma con una passione evidente per la poesia. C’è stato come un travaso, una situazione di vasi comunicanti. Io parlavo normalmente e loro ascoltavano pieni di meraviglia, forse perché ero una voce strana per la scuola, una voce indecisa, che inciampa un po’, che trasmette un sapere-insieme e non già pronto in cartella, e un fare, una pratica a rischio, audace. Poteva finire in un disastro. Invece è andata a bene, grazie allo spirito di avventura che i bambini e le bambine prediligono.

Come si riesce ad avvicinare i bambini alla poesia?

Piano piano ho creato un mio piccolo metodo che condivido solo con i bambini, delle avventure per andare in cerca e sostare un po’ nel luogo della poesia, perché anche la poesia come l’infanzia è un luogo, credo. Ma quello che conta è che, ogni volta che entro in una classe, non so cosa succederà, non vado con idee fisse e programmi rigidi, ma con il tremito dell’apprendista e con la passione di una vita intera devota alla poesia. I bambini credono ancora in una promessa, una promessa che non ha un contenuto preciso, ma chiunque arriva e fa una faccia da promessa, ha parole di promessa, sorrisi di promessa, è accolto con gioia immensa, perché hanno tanto bisogno di credere nel mondo.

Oltre al libro, il progetto quali risultati ha portato?

Non saprei, alcune maestre gentili mi hanno voluto far sapere che i bambini grazie alla poesia sono cresciuti, si sono aperti, come un po’ sbocciati, altre mi hanno detto che hanno scoperto nei loro scolari dei tesori nascosti. Io ho perso il posto a scuola. Ma mi hanno chiamato altre scuole, scelgo quelle con tanti migranti, con mondi diversi, perché allora la poesia è una necessità, mette un po’ di terra sotto i piedi, ti dà il senso di una continuità dell’anima anche se tutto è cambiato. La poesia porta a scuola la parola viva, quella che dice le cose che di solito sono fuori scuola. Quand’ero piccola, ho scritto spesso temi che venivano valutati con una scritta blu ‘fuori tema’ o perfino: ‘gravemente fuori tema’. Era una frustrazione tremenda. Mi faceva sentire fuori mondo, fuori gente, eppure è proprio questa ferita che adesso mi aiuta a incontrare chi è letteralmente fuori mondo, fuori patria.

In qualche modo i bambini quindi hanno aiutato anche lei?
Di sicuro, questo lavoro a me ha portato la sensazione di essere utile, mi sento meno tagliata fuori dalla città, più in contatto con la realtà viva della nuova faccia di Milano, una città che adesso, con tanti mondi e persone diverse, mi piace molto di più, mi fa sentire meno sola. E poi da sempre io chiedo a me stessa e alla mia ricerca parole che raggiungano, che tocchino gli altri, che li sveglino o li cullino, come strette di mano. Paul Celan diceva: “Non vedo alcuna differenza tra una poesia e una stretta di mano.” Lo dico spesso ai bambini e loro sorridono tantissimo.

Quale importanza può avere la poesia nella vita delle persone?

Certe volte, dico ai miei scolari provvisori: “Se i poeti facessero sciopero, forse all’inizio non se ne accorgerebbe nessuno, ma se la poesia finisse per andarsene dal mondo, non sopravvivremmo.” Fedi, 8 anni mi ha detto: Vorrei non dimenticare mai queste lezioni per il mio desiderio infinito. Ecco la poesia contribuisce a sfamare il nostro desiderio infinito.

Su cosa sta lavorando ora?

Ora io continuo a scrivere, ad aspettare che la poesia arrivi, perché arriva quando le pare e certe volte è un’attesa da disperati. Senza poesia non sono niente. Poi, vado a scuola se mi chiamano. Vado dove mi cercano se ce la faccio con il tempo e con la salute che è un po’ delicata. Sentire che la cosa che coltivo da cinquantatré anni (ho iniziato a scrivere poesie a dieci anni e ora ne ho sessantatré) il mondo ora la vuole è una gioia strepitosa. Poter parlare all’infanzia è un dono che mi fa girare la testa. E mi sembra che parlare agli adulti è parlare ai bambini senza età che vivono in noi e hanno tutti fame.

 

 

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