24 Settembre 2014
Il manifesto

La follia del corpo femminile

Un’esposizione al Grand Palais che ripercorre la produzione eccentrica dell’artista franco-americana Niki de Saint Phalle: una passeggiata fra le sue Nana e le madri divoratrici.

Niki de Saint Phalle acco­glie i visi­ta­tori al Grand Palais con la cara­bina pun­tata: è la foto­gra­fia di una per­for­mance dei Tiri, ini­ziati nel ’61, dove l’artista, discen­dente di una fami­glia ari­sto­cra­tica fran­cese, man­ne­quin per VogueHarper’s Bazaar, spara con­tro un’opera per col­pire una visione tra­di­zio­nale dell’arte, un’idea di reli­gione, la società patriar­cale, la situa­zione poli­tica, le ingiu­sti­zie. Il colore cola sotto le pal­lot­tole, ma il gesto è con­trol­lato, come in un drip­ping di Pol­lock, la vio­lenza si tra­smette attra­verso il gioco.

La dia­let­tica tra vio­lenza e aspetto gio­ioso è anche la carat­te­ri­stica delle opere più famose di que­sta arti­sta franco-americana, nota soprat­tutto per le Nana, a cui a dodici anni dalla morte il Grand Palais dedica la prima grande espo­si­zione in Fran­cia (fino al 2 feb­braio 2015), con un per­corso cro­no­lo­gico e tema­tico attra­verso cen­to­set­tan­ta­cin­que opere. Una mostra che rap­pre­senta una sco­perta di molti aspetti della pro­du­zione di quella che la cura­trice, Camille Mori­neau, defi­ni­sce senza incer­tezze «la prima grande arti­sta fem­mi­ni­sta del XX secolo».
Niki de Saint Phalle è stata un’autodidatta. Comin­ciò a dipin­gere all’inizio degli anni ’50, tra Parigi e New York (dove visse per un certo periodo con il primo marito, lo scrit­tore Harry Mathews, che abban­do­nerà per l’artista Jean Tin­guely, lascian­do­gli anche la cura dei figli), sem­pre a con­tatto con le avan­guar­die delle due sponde dell’Atlantico. Fu pro­prio vedendo uno dei Tiri che il cri­tico Pierre Restany pro­pose a Niki de Saint Phalle di far parte del Nou­veau Réa­li­sme, unica donna del gruppo.

Anche il qua­dro tra­di­zio­nale, ben­ché preso a fuci­late e costruito con rilievi, risul­tava angu­sto per le ribel­lioni di Niki de Saint Phalle. La donna diventò ben pre­sto il sog­getto pre­di­letto: sono i grandi per­so­naggi dei corpi fem­mi­nili, le Mariées (Spose) scul­ture di assem­blage costruite con un’accumulazione di oggetti sim­bo­lici e colo­rate di bianco su pizzi rap­presi, i Parti con dei bam­bo­lotti che ven­gono alla vita, le Dee, le Pro­sti­tute, le Stre­ghe. Gio­cat­toli di pla­stica, ragni che spun­tano, ma anche armi come sim­bolo del potere maschile, oggetti vari, quo­ti­diani e oni­rici, com­pon­gono que­sti corpi gigan­te­schi che, venati di iro­nia, donano potere alla donna. «Avevo deciso di diven­tare un’eroina – ha rac­con­tato in una delle nume­rose inter­vi­ste, alcune delle quali sono ritra­smesse nel per­corso della mostra – Chi sarei stata? George Sand? Gio­vanna d’Arco? Napo­leone in gonna?». L’importante è far sapere a Mummy, la madre che com­pare nel ter­ri­bile film Daddy (che evoca tar­di­va­mente il dolo­roso ince­sto subìto nell’infanzia): «Madre mia, non vi asso­mi­glierò. Avete accet­tato ciò che vi era stato tra­smesso dai vostri geni­tori: la reli­gione, i ruoli maschile e fem­mi­nile, le idee sulla società e la sicu­rezza». Invece «io pas­serò la vita a farmi domande, mi inna­mo­rerò del punto interrogativo».

Le Nana colo­rate, gio­iose e potenti sono l’espressione di un fem­mi­ni­smo sor­ri­dente, indi­vi­dua­li­sta (l’artista non mili­terà nei movi­menti): «Voglio essere supe­riore: avere i pri­vi­legi degli uomini e in più con­ser­vare quelli della fem­mi­ni­lità, con­ti­nuando a por­tare dei bei cap­pelli». Le Nana si ingi­gan­ti­ranno fino a diven­tare delle Nanacase, come la monu­men­tale e pro­vo­ca­to­ria Hon, costruita per il museo di Stoc­colma, dove si può entrare dalla vagina (di cui restano la maquette, alcuni dise­gni e imma­gini). «Le mie scul­ture rap­pre­sen­tano il mondo della donna ampli­fi­cata, la fol­lia di gran­dezza delle donne…». Ma nulla è certo per Niki de Saint Phalle: dopo le alle­gre Nana (un insieme è, per esem­pio, un omag­gio alla Danza di Matisse), arri­vano le Madri divo­ra­trici, grot­te­sche, ter­ro­riz­zanti, castranti, l’altra fac­cia del potere.

L’opera di Niki de Saint Phalle è anche diret­ta­mente poli­tica, impe­gnata. Il Nana Power evoca il Black Power (alcune Nana sono nere). In King Kong, un’opera del ’63, gli uomini poli­tici del momento, da De Gaulle a Ken­nedy o Khrut­chev sono tra­sfor­mati in bas­so­ri­lievi su un campo di rovine, dove tutto è bom­bar­dato e il sole guarda dall’alto, facendo lin­guacce al lin­gua al mondo. In Glo­bal War­ning ci sono già i temi eco­lo­gici. Un Altare dorato evoca i cri­mini dell’Oas in Alge­ria. Bush padre è per Niki de Saint Phalle l’«idiota mega­lo­mane» che com­pare in alcune opere con tutti i sim­boli, dai dol­lari al capello da cow boy.

Niki de Saint Phalle è stata fra le prime arti­ste ad affron­tare il dramma dell’Aids (un cra­nio monu­men­tale è espo­sto con­tem­po­ra­nea­mente al Centquatre-Paris). Come Warhol, sapeva maneg­giare i media e desi­de­rava rea­liz­zare un’arte popo­lare: in par­ti­co­lare, in Ita­lia, lavorò per una ven­tina di anni alla costru­zione dell’immaginifico Giar­dino dei taroc­chi, vicino a Capal­bio, un parco di 22 scul­ture monu­men­tali, che si ispira allo stile del cata­lano Gaudi.

 

Il manifesto 24.9.2014

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