di Luisa Muraro
La letteratura delle donne cresce in avanti, con nuove scrittrici, ma anche indietro, con la scoperta di antiche. Un mese fa ho avuto la fortuna d’incontrare una scrittrice angloirlandese contemporanea di Jane Austen, da lei ammirata e di lei allora molto più nota, Maria Edgeworth e il suo romanzo Harrington, dal nome del protagonista.
L’ha pubblicato nel 2012 un antico editore ebreo di Livorno, Salomone Belforte, nella traduzione italiana di Raffaella Leproni e con un corredo di notizie accurate e preziose di Carla de Petris. Le due sono studiose dell’Università di Roma 3, donne che hanno il tempo e gli strumenti per fare un lavoro a regola d’arte. E li mettono al servizio di una sempre migliore conoscenza della tradizione culturale segnata da presenze femminili. Il movimento femminista è stato per la cultura accademica una scossa meno appariscente del Sessantotto, ma più duratura e feconda, che continua a germogliare idee, studi e scoperte.
Il romanzo è raccontato in prima persona. Maria Edgeworth presta il suo io narrante al protagonista, con effetti talvolta ironici o comici verso la psicologia del maschio giovane. Lei era quella che noi diciamo una figlia del padre. Costui, un intellettuale illuminista, ne fece la sua collaboratrice. All’uomo che chiese la sua mano, Maria fece sapere che no, preferiva rimanere con il padre, primogenita di una numerosa discendenza. Portò come ragione che non era abbastanza bella per fare la padrona di casa, pare infatti che fosse piccola di statura e bruttarola. M’interrompo, c’è tutto nell’apparato di Carla de Petris.
Però mi soffermo sulle circostanze in cui la Edgeworth concepì questo romanzo. Era scrittrice per l’infanzia e non, aveva intenti pedagogici e si faceva leggere da moltissime/i. Ma non era consapevole che infiorava i suoi scritti con pregiudizi antisemiti, allora correnti a tutti i livelli sociali. (Di ciò una parte di colpa ricadeva su Shakespeare con Il mercante di Venezia: ricordate Shylok?) Un giorno ricevette una lettera dall’America, dove una giovane ebrea, che la apprezzava, garbatamente le segnalò questa bruttura presente nei suoi scritti. Ci fu una corrispondenza, Maria diventò consapevole della sua responsabilità e scrisse Harrington. Che non è solo un esempio di svolta mentale e d’impegno educativo. È anche un romanzo che si avvicina a quelli di Jane Austen come un loro complemento (Maria frequentava l’alta società cittadina) e ogni tanto ne pareggia la celebre ironia, per esempio nell’episodio del gomito della borghese che sporge nel palco dell’aristocratica, a teatro, o nell’enfasi dell’innamorato Harrington che straparla volendo perorare la sua causa al savio padre della donna amata.
Un romanzo che si legge con un piacere crescente, dopo un avvio un po’ laborioso per via di qualche lungaggine pedagogica, tributo all’autorità paterna. Ma anche un documento in diretta della classe dirigente di fine secolo XVIII e, per le amanti di Jane Austen, un punto di avvistamento di sorprendente prossimità: come un binocolo puntato. Il tutto in vendita alla Libreria delle donne di Milano, prezzo euro 16.
(Luisa Muraro, www.libreriadelledonne.it, 21 marzo 2014)