26 Gennaio 2014
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La grande crisi dei medici e la “riscoperta” del lavoro di cura

di Sandra Morano
Ginecologa- Ricercatrice Università degli Studi di Genova

Bisogna ritornare, dopo decenni, a ridiscutere il fondamento di quest’arte che è modernamente andato perso, e con esso la relazione, e con questa la rappresentanza. E non bisogna avere vergogna di parlarne, come sembra che oggi avvenga: vite spese a prendersi cura di corpi e sentimenti non sono paragonabili a tanti altri lavori (14/1/2013)
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Cambiamento
Negli ultimi tempi ho ascoltato attentamente molti convegni in cui era declinata la parola “cambiamento” cercando un riferimento alle condizioni in cui continuiamo a lavorare, in un sistema che si sta sgretolando sotto i nostri occhi, in cui, a differenza che nelle generazioni precedenti, non è tanto il progresso tecnologico a comandare il gioco, ma sono i luoghi delle cure a trasformarsi fino a scomparire, lasciando sullo sfondo i curanti (e, ancor peggio, i curati). Tavole rotonde, corsi di aggiornamento, con protagonisti mutuati sempre più da altri mondi, dell’economia, dalle scienze ingegneristiche, della politica, a parlare a medici intorno ai sessant’anni, ovviamente in difficoltà ad accettare non tanto i tagli quanto i linguaggi ancora estranei alla loro quotidianità. I sindacati, a loro volta, facilmente definiti come conservatori di un mondo che è oggi quasi spazzato via, si affannano, come sempre, a mediare, stavolta tra la vita di intere generazioni e la linea decisa in altre sedi. In particolare un giovane bocconiano ha iniziato la sua relazione con una serie di grafici che illustravano il cambiamento richiesto dalla produttività, ed ha finito con una diapositiva in cui campeggiava l’imperativo “adapt or die”. Non c’era molto spazio per le sofferenze che siamo chiamati a vedere, diagnosticare, com-patire, talvolta guarire. Che questo lavoro ha ancora la capacità di farci toccare da vicino.

Dovremmo veramente ricominciare da qui. Da come, miracolosamente, contrariamente alla crisi del sistema di formazione, esportiamo medici capaci; come, in piena crisi economico/politica, il nostro SSN esca così bene dalle indagini demoscopiche (vedi Ilvo Diamanti: ma ce ne era bisogno? Non lo constatiamo quotidianamente lavorando nelle condizioni peggiori degli ultimi decenni?). In quali altri campi lavorativi, in un momento come questo, possono proliferare dibattiti a catena come quello sulla ricerca di un riformista che faccia il suo dovere, o quello sulla peculiarità delle donne in medicina? Ricordo le parole dell’oncologa Giuseppina Sarobba di Sassari: «Mi piacerebbe che il mio DG, o ancor meglio il mio Assessore alla Sanità, stessero accanto a me un giorno di ordinario lavoro per capire la complessità di cosa facciamo, come lo facciamo, con quali strumenti, con quale qualità». E quelle di M. Antonietta Calvisi, senologa di Nuoro: «[…] questo sistema sanitario […] è un sistema sempre più improntato a imperativi di produttività con una gestione di risposte di tipo imprenditoriale, e allora praticare una senologia fatta di percorsi e condivisione con la donna come fulcro è veramente molto difficile…». Questo confronto appassionato si è protratto per lungo tempo, in una società e in un SSN che si dice in crisi, fino a spingere Cavicchi al riconoscimento che la presenza delle donne in medicina ha portato ad «una idea nuova nella quale il cambiamento coemerge da una visione nuova da parte della donna medico tanto della medicina che della organizzazione sanitaria».

Relazione e rappresentanza
Il tema della relazione, tirato in ballo soprattutto riguardo al ruolo delle donne medico (un certo “innatismo”, una obiettiva maggiore facilità), lungi dall’essere rubricato come una “specialità femminile”, ci riporta al significato della stessa, cioè «il mezzo attraverso il quale è possibile ripensare conoscenza/prassi e clinica». «La differenza di genere non è solo un sistema arbitrario di soprusi ma è semplicemente una forma di antieconomia in tutti i sensi al pari di tutte le forme di anacronismo che riguardano i modelli organizzativi, la gestione finanziaria e le pratiche professionali ecc.»
Anche la rappresentanza è in crisi. Ce lo ricordano quotidianamente tutti gli organismi democratici. C’è troppa distanza dai luoghi della vita reale in chi governa, oppresso dalla necessità di far tornare i conti.

Osserviamo le recenti manifestazioni di piazza, ricordiamo le condizioni in cui è nato l’ultimo governo, le non vittorie, le non sconfitte, le vere distanze della popolazione dalle urne. E per converso una crisi che investe anche il sindacato, nella difficile transizione. Prima ancora degli accadimenti di questi giorni, che ci ribaltano un paese attraversato da proteste di una parte di popolo che facciamo fatica a catalogare, ad incasellare in categorie a noi note, e talvolta anche a comprendere, il problema della rappresentanza era ampiamente conosciuto.
«Probabilmente pensano che la gente lavori di più perché ha dei soldi da ricevere, ma questo non è vero. Perché se si vogliono mettere i soldi come meta, ma si comportano male nei confronti delle operaie e di tutti in generale, si sbagliano. Non sono i soldi che fanno gola, ma è il rapporto, il clima, l’ambiente in cui si lavora.» (Delegate manerbiesi delle fabbriche tessili Marzotto e Confezioni Manerbiesi tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta).
«Deve mantenere l’autorità sul lavoro chi il lavoro lo fa, non chi campa sul lavoro altrui. Chi svolge il lavoro conosce la qualità  il valore, le competenze e le esperienze che servono per svolgerlo al meglio, ed è per questo che le delegate non possono accettare il dispositivo “più salario solo se c’è più utile”, e ancor meno il combinato disposto “più salario a chi produce più pezzi, a chi fa più quantità”. Questa è una logica che purtroppo sta dominando perfino in ambito sanitario, gli ambulatori medici e le visite specialistiche: chi sforna più pezzi – più corpi ammalati – è più gratificato dai premi incentivanti; allo stesso modo, le università che sfornano più studenti laureati, a prescindere dalla loro effettiva formazione, sono le più premiate.» (Annarosa Buttarelli, Sovrane, L’autorità femminile al governo, Il saggiatore).

Queste frasi ci fanno capire come il sapere di chi il lavoro lo fa sia superiore a tutto, e ri-definisce la rappresentanza, in un continuum che dalle considerazione delle operaie tessili di Manerbio arriva alle tesi di filosofe come Hannah Arendt o Simone Weil, che hanno scritto molto sulla rappresentanza, negandone l’organizzazione scissa dalla relazione. Dobbiamo, noi che facciamo, far sentire tutta l’autorevolezza e il peso, anche dell’agente, dei corpi pensanti che lo compiono. Non avere vergogna di parlarne, come sembra che oggi avvenga: vite spese a prendersi cura di corpi e sentimenti non sono paragonabili a tanti altri lavori. L’odierna crisi di rappresentatività investe trasversalmente tutti (uomini e donne, giovani e meno giovani), come appare non solo a livello elettorale, ma nelle stesse sedi di categoria in cui invece è sempre stata sinonimo di solidarietà e difesa di diritti.

Le donne, i giovani
Le prime: un fenomeno di cui già oggi non si può più fare a meno, quelle che sembra siano destinate a mantenere ancora funzionanti i sistemi di cura (ma quando mai ne sono state estranee? Se mai, storicamente espulse, oggi ritornano ad essere visibili nelle istituzioni di assistenza e formazione). Le riflessioni sulla rappresentanza dovrebbero essere sollecitate soprattutto a loro.
I giovani: in ambito sanitario ricordano un po’ la generazione Omega del fantathriller I figli degli uomini di PD James, unici giovani superstiti in un mondo vecchio e distrutto, in cui da un paio di decenni non nascono più esseri umani, e in cui la convivenza tra generazioni, con i reciproci patrimoni, sembra non poter più esistere. Giovani su cui sono puntate tutte le speranze ma senza un domani, continuamente guardati, invocati, ma non educati ad un futuro che gli adulti non sanno neanche immaginare. Questa la raccapricciante profezia del romanzo: nella realtà, nella nostra realtà, non è in un (inutile) duello tra sessi o generazioni, come pure inseguendo la “produzione di risorse e salute”, che si gioca la partita del futuro (e del cambiamento come precondizione) tutta interna al nostro terreno. Bisogna ritornare, dopo decenni, a ridiscutere il fondamento di quest’arte che è modernamente andato perso, e con esso la relazione, e con questa la rappresentanza.

Sembra paradossale in questo momento storico, ma è di questo che bisogna tornare a parlare tra noi, vecchi e giovani, uomini e donne: di formazione, di complessità, di incertezza (i tre viatici di Edgar Morin: il pensare bene, la strategia, la scommessa, che suonano estremamente attuali e pertinenti). Non con economisti, ma con filosofi, storici, pedagogisti medici, medici tout-court dobbiamo confrontarci, per riprendere il cammino che dalle ragioni ci possa condurre alla ragione dell’identità e del futuro della più antica professione di cura.
«Un’artista non è mai povera» faceva dire Karen Blixen a Babette quando raccontò di aver speso tutto il patrimonio vinto alla lotteria nella preparazione del bellissimo omonimo pranzo (Il pranzo di Babette). Dopo anni in cui molto è andato perso, ma è anche stato sperperato, non solo posizioni, ma anche fiducia, dignità, quel che resta ancora di quell’arte non è poco. Che, a dispetto di tutto, il 2014 sia l’anno del pensiero, e della riflessione.

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