13 Novembre 2015

La grande mostra

di Sara Gandini e Claudio Vedovati

 

La Grande Madre è una mostra aperta fino al 15/11/2015 a Palazzo Reale di Milano, che racconta come la radicalità del femminismo ha rivoluzionato il ’900. Il punto di vista è quello di un uomo nato dopo il femminismo, il curatore Massimiliano Gioni, che rende visibile il cambiamento profondo della nostra civiltà, non solo del mondo dell’arte. Ed è proprio nel profondo che ci ha colpito questa esposizione. Noi che scriviamo, figli del ’68 e del femminismo, siamo toccati dalla forza e consapevolezza delle artiste degli inizi del ’900, donne coraggiose e ironiche, che sapevano lanciare grandi sfide ai loro compagni.

Pensiamo a Benedetta Cappa, che invia la sua Spicologia di 1 uomo (1918) a Marinetti dopo averlo conosciuto a una mostra. La Spicologia di 1 uomo – non “psicologia”, ma “spico”, spillo – mostra i fili tesi tra gli spilli, come fosse un ricamo a tombolo a forma di stella, che circondano un cerchio con la scritta: «vuoto». Si firma «Benedetta fra le donne», giocando sulle parole dell’Ave Maria, la madre per eccellenza, facendo riferimento all’associazione tra la creazione e la maternità e sfidando il disprezzo di Marinetti che nel 1910 scriveva «Noi disprezziamo la donna, concepita come ninnolo tragico». Tuttavia le dieci lettere che attorniano la stella, formano le parole “uomini vita”. E Marinetti diventò il suo compagno. Sono grandi donne che non rinunciano a esserci secondo la propria verità, anche se alla fine spariscono dalla “Storia”: per la Storia dell’Arte rimarranno per lo più i maschi futuristi. Ci vorrà Lea Vergine con “L’altra metà dell’avanguardia 1910-1940” per celebrare pittrici e scultrici dei movimenti delle avanguardie storiche: una mostra del 1980 che fece storia.

Sempre degli inizi del ‘900 (1915-1923) è Il grande vetro, ovvero La sposa messa a nudo dai suoi celibi di Marcel Duchamp, una delle opere simbolo dell’avanguardia del primo Novecento. Il prototipo delle “macchine celibi” anche oggi ci interpella: si tratta forse di una metafora del difficile rapporto maschile col generare e dell’impotenza del patriarcato? Rivela la frustrazione del desiderio maschile di fronte alle nuove forme di libertà femminile? Oppure il sogno di poter costruire una macchina-figlia nate senza madre, che annulli la genealogia femminile? O ancora, la paura maschile del desiderio femminile? In ogni caso, Il Grande Vetro si misura con la Grande Madre.

Nascono in quegli anni donne come Carol Rama e Luise Bourgeois, che attraverseranno tutto il ’900 e sapranno imporsi portando tutte le contraddizioni e il dolore di donne nate in pieno patriarcato. Per esempio, Carol Rama racconta la pazzia femminile mettendola in relazione all’orgasmo: «La mucca pazza sono io. Mi piace perché è pazza, perché ha gesti erotici da pazza». Ancora: «Io dipingo per istinto e dipingo per passione, e per ira e per violenza, e per tristezza e per un certo feticismo, e per gioia e malinconia insieme, e per rabbia specialmente». Carol Rama è un’artista libera, dice di non avere avuto maestri (nomina spesso la sua relazione con il poeta Sanguineti, che definisce un amico “amoroso”) e prende le distanze anche dal femminismo emancipatorio di quegli anni. Teme la deriva del neoliberismo, la libertà femminile intesa come libertà di vendersi. In un’intervista del 2002 alla Galleria di Franco Masoero, esprime molto bene quello che intendiamo per libertà relazionale: «Per essere liberi bisogna essere in due. La libertà è qualche cosa che va accordata».

La libertà femminile arriva con la sua potenza rivoluzionaria negli anni ’70. Pensiamo ad esempio a Martha Rosler, che in Semiotica della cucina (1975) ribalta l’immagine della donna in questo spazio: tra le sue mani gli oggetti comuni prendono vita e diventano armi pericolose. La casalinga qui è tutto meno che accogliente e amorevole. Siamo nel momento chiave della separazione e la radicalità del femminismo è tale che la creatività femminile è cosi prorompente che mette in ombra quella maschile. Infatti anche in mostra per alcuni decenni ci sono pochissime opere di artisti maschi e le artiste rinunciano a lottare per avere relazioni significative (politiche e non solo) con gli uomini (Vai Pure, scrive Carla Lonzi, anch’essa in mostra con i testi di Rivolta femminile).

Per questo è importante ai nostri occhi l’ironia di Louise Bourgeois, che chiama fillette (“ragazzina”, 1968) la scultura di un grande fallo, che porta sottobraccio sorridendo felice in un ritratto fotografico di Robert Mapplethorpe. «Il fallo è per me oggetto di tenerezza. Ha a che fare con la vulnerabilità e la protettività. Dopo tutto ho vissuto con quattro uomini, mio marito e i miei tre figli. Io ero la protettrice. Ma anche se mi sento protettiva nei confronti del fallo, non significa che non ne abbia paura», dice dopo avere immaginato di smembrare il padre in pezzetti, come scrive nel libro Distruzione del padre / Ricostruzione del padre: «più mio padre si pavoneggiava, più noi ci sentivamo insignificanti. Improvvisamente si creava una tensione terribile, e noi lo afferravamo – mio fratello, mia sorella, mia madre e io – […] lo trascinavamo sul tavolo e gli strappavamo le gambe e le braccia – lo smembravamo. […] Fantasie, ma talvolta la fantasia è vissuto».

La fine del credito al patriarcato delle femministe degli anni ’70 fa emergere anche qualche segno di cambiamento maschile. Un giovane californiano, Matt Mullican, in Details from an Imaginary Life from Birth to Death (1973) mostra il senso della differenza, descrivendo la vita di una donna immaginaria, dalla sua nascita alla sua morte, senza che scatti alcuna identificazione o sostituzione con lei. Ci ha colpito perché il senso della differenza mostrato da questo artista permette di mettere in scena l’empatia di un uomo con la vita di una donna, senza sostituirsi a lei, senza perdere quella distanza che apre alla trasformazione.

Nel nuovo millennio abbiamo i figli del femminismo, uomini e donne che hanno dentro di sé il senso della differenza e sanno dunque stare in relazioni di differenza e Ragnar Kjartansson in Me and My Mother (2000) per venti minuti si fa sputare in faccia da un’elegante signora, sua madre, di fronte a una libreria. Mette così in scena la necessità di stare presso la rabbia femminile, soprattutto quella della madre, anche se non la si capisce. Continuano e continueranno a reiterare questa rappresentazione con costanza per anni, finché la loro relazione, il loro amore, sarà forte. Qui l’arte entra nella vita e nella politica. Nel 2013, in un’altra sua installazione all’Hangar Bicocca, l’artista e sette musicisti, suoi amici e collaboratori, suonano e cantano all’unisono per ore una canzone, Feminine Ways, che la ex-moglie ha composto proprio quando il matrimonio stava naufragando. Lui si assume le parole di lei, le fa sue, le fa cantare agli amici, per poi camminare insieme a loro verso un orizzonte differente.

Sul rapporto tra madre e figlio maschio lavora anche Kiki Smith con l’opera Mother/Child (1993): madre e figlio, nudi, si masturbano l’uno affianco all’altro. Kiki Smith affronta il nodo del legame libidico, delle pulsioni sessuali che attraversano e costituiscono la relazione tra una madre e un figlio, dando forma – per un maschio che guarda quest’opera – alle inquietudini maschili sulla propria origine.

L’inquietudine ritorna con Nathalie Djurberg che nel video It’s the Mother (2008) rappresenta in video una giovane madre che non riesce a sottrarsi all’“attacco” dei suoi cinque figli che rientrano dentro di lei dalla vagina. Insieme al suo compagno Hans Berg, che crea le musiche, mostra le angosce dell’oscuro materno: «Per lo più è Nathalie che ha un’intuizione e se non resiste comincia a lavorarci su, ma i temi sono già presenti nelle nostre conversazioni e nelle nostre vite». Lui racconta il suo affidarsi alle intuizioni e alla passione di lei, ma anche come i lavori assumono una forma diversa quando entrambi ci sono, con le loro differenti urgenze.

Si tratta di relazioni tra una donna e un uomo che sanno trasformare l’oscuro per arrivare a mostrare altro. Per esempio il recente video di Camille Henrot, Grosse fatigue (2013), crea accostamenti imprevisti e illuminanti sul rapporto tra creazione artistica e origine dell’universo e della vita, generazione dal corpo di una donna e organizzazione del sapere. Nel video una giovane donna riporta la vita in un tempio del sapere, la Smithsonian Institution, una moderna stanza delle meraviglie. Si aprono i cassetti e una raccolta mortifera di animali impagliati e di fossili si trasforma, attraverso le mani di questa ragazza francese e la potenza delle sue associazioni, in una esplorazione molteplice dell’origine e di ciò che anima la vita. L’artista si assume l’autorità di risignificare miti, arte, religione, antropologia, senza perdere il desiderio di misurarsi con il maschile: la voce recitante e incalzante è di uno slam poet.

Questa mostra, ripercorrendo tutto il ’900 per arrivare fino alla nostra epoca, mette in scena come l’arte contemporanea abbia saputo cogliere un nodo fondamentale: solo quando uomini e donne passano dalla porta stretta della rabbia femminile (lo sputo della madre) e dal riconoscimento dell’autorità femminile, con tutto l’oscuro che il materno si porta dietro, si può trasformare il mondo, aprendo significati imprevisti con invenzioni coraggiose.

(www.libreriadelledonne.it 13/11/2015)

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