17 Febbraio 2015
Quotidiano del Sud

La guerra di Gentiloni all’Isis

di Franca Fortunato

 

La guerra, evocata dal ministro degli Esteri Gentiloni, contro il sedicente Stato Islamico in Libia, non può non indurci a provare a fare prevalere – cosa non facile – il buon senso, la saggezza, la riflessione, la conoscenza, prima che sia troppo tardi.

Di che cosa parliamo quando diciamo Isis? Della prevalenza nell’Islam politico della corrente più radicale, che ha per obiettivo la restaurazione dell’antico Califfato, distrutto dai mongoli nel 1261 e che si estendeva dalla capitale irachena fino all’attuale Israele. Quella dell’Isis è una tradizionale e moderna guerra di conquista, portata avanti, con ogni mezzo, tramite la guerra santa (jihad) contro gli apostati (i non sunniti) e gli infedeli (gli occidentali). È sullo sfondo della guerra civile in Siria, e di un Iraq ancora paralizzato dall’intervento occidentale, che l’Isis si è messo a conquistare seguaci, dentro e fuori i Paesi musulmani, con un messaggio potente: la promessa della libertà politica attraverso la restaurazione del Califfato che, da sempre, nell’immaginazione dei musulmani rappresenta lo stato ideale, la nazione perfetta, in cui trovare la salvezza – come gli ebrei nello stato d’Israele – dopo secoli di umiliazioni, razzismo e sconfitte per mano delle potenze straniere e dei loro associati musulmani. Da decenni fondamentalisti e studiosi islamici assicurano che i millenni di grandezza e splendore raggiunti sotto il Califfato, considerato una sorta dell’età dell’oro, di paradiso in Terra, torneranno in vita. La sua restaurazione è il sogno dei revivalisti islamici almeno dagli anni cinquanta, quando Hizb ut-Tahrir cominciò a invocare la sua rifondazione. Anche Obama bin Laden l’ha spesso citato come suo fine supremo, ma nessuno si era mai neppure avvicinato alla sua realizzazione, anzi per tutti è rimasto un sogno bello e impossibile. Un sogno divenuto realtà con lo Stato islamico e con Abu Bakr al-Baghdadi, autoproclamatosi, nel giugno 2014, nuovo califfo e che, come tale, ha imposto la legge islamica (sharia): tagliare le teste, rapire le donne e costringerle a matrimoni precoci e forzati, infliggere violenze e pene corporali. Ma l’Isis non è solo terrore, violenza, esibita anche sui social network per diffondere la paura, ma è anche – come ci racconta Loretta Napoleoni nel suo libro Isis. Lo Stato del terrore – la ricerca del consenso attraverso programmi sociali e una politica di alleanze con le tribù sunnite locali per lo sfruttamento delle risorse naturali, presenti nei territori conquistati con la guerra. Le forze dell’antiterrorismo, nel prevenire e impedire l’avvento del Califfato, hanno fallito. Come spiegare la creazione, nell’arco di tre anni, di questo sedicente Stato islamico?

Aicha El Hajjami, studiosa e ricercatrice marocchina, sulla rivista della Libreria delle donne di Milano, Via Dogana n. 111, dicembre 2014, indica tra le cause interne il nutrimento che, nel mondo arabo musulmano, hanno dato a lungo all’oscurantismo religioso gli Stati che «percepivano il pensiero religioso critico come una forma di sovversione da mettere a tacere con tutti i mezzi» e che continuano a farlo, come l’Arabia Saudita.

Le cause esterne sono tante e vale la pena ricordarle con lei: la lunga serie di aggressioni e umiliazioni subite dal mondo arabo-musulmano fin dai tempi della colonizzazione; il sostegno occidentale ai regimi corrotti e tirannici (Saddam Hussein, Gheddafi) fintanto che servivano i loro interessi; la rapina delle ricchezze di questi paesi da parte delle multinazionali ; il perdurare dell’occupazione israeliana e il massacro della popolazione palestinese; la guerra in Afghanistan, in Iraq e in Libia. Non si può dimenticare, infine, che l’islamismo radicale è anche una creatura degli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda contro l’ex-Urss: Bin Laden era stato armato da loro.

Ma che cos’è che attira dell’Isis tanti giovani immigrati musulmani europei e americani, di seconda e terza generazione? È il sogno del riscatto dalle frustrazioni e umiliazioni di cui sono quotidianamente vittime, in un mondo che non offre loro un futuro. L’Isis chiede loro di combattere per raggiungere il paradiso, non nell’aldilà, ma sulla terra, sotto il Califfato, riservato ai soli sunniti. Giovani facile preda dei fondamentalisti perché, avendo studiato in Occidente, non conoscono i libri religiosi e i veri valori dell’Islam: pace, fratellanza, giustizia e uguaglianza. Come dimenticare, poi, che Arabia Saudita, Qatar e Kuwait sono stati i primi finanziatori del gruppo di al-Baghdadi contro Assad? Lo hanno anche addestrato militarmente, mentre gli Usa hanno armato (non ufficialmente) tutti i gruppi anti-Assad. Con quelle armi, confiscate dallo Stato Islamico dopo ogni vittoria, combattono ora i sostenitori di Baghdadi. A questo punto, che cosa possiamo fare?

Se è vero che nessuna/o ha la ricetta miracolosa, l’unica cosa che dovrebbe esser(ci)e chiara è che una nuova guerra non sarebbe la soluzione. Questa, infatti, non farebbe che attizzare ancora di più l’odio e i risentimenti in una popolazione frustrata, stremata e oppressa dalle violenze. Mieterebbe ulteriormente vittime innocenti tra i civili e destabilizzerebbe completamente il Medio Oriente, con risultati peggiori del male che si vuole combattere. Non è questo tempo di risposte “scontate”, ma di domande e di ascolto. Hajjami indica la strada dentro il mondo arabo musulmano, dove «la vera jihad» di cui c’è bisogno «è quella del pensiero critico» sul patrimonio religioso e culturale dell’Islam per trasmetterne i veri valori, così come sulle sfide della modernità e della globalizzazione. La «vera jihad» è quella di «risolvere la problematica del rapporto tra religione e politica, la problematica dei diritti umani e soprattutto dei diritti delle donne». Ma è anche quella di intervenire sugli aspetti economici dello sviluppo e di avere cura nell’assicurare una suddivisione equa delle risorse nazionali. Sono le tante donne come Hajjami, e non le guerre di cui l’Isis è figlio, che per (me) noi donne sono motivo di fiducia nello sviluppo delle società di cultura musulmana e nello svelamento del volto maschilista e patriarcale, tribale e violento, dell’Isis.

(Quotidiano del Sud, 17 febbraio 2015)

Print Friendly, PDF & Email