Riportiamo in prima pagina questo articolo pubblicato su "il manifesto" il 2 giugno 1988, ancora oggi attuale e da rileggere.
18 Luglio 2014
il manifesto - 2/6/1988

La lingua batte dove il dente duole

di Luisa Muraro

Dedico questo scritto ad Alma Sabatini, autrice delle Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana e, coadiuvata da altre, di Il sessismo nella lingua italiana. Ho cercato di scrivere come le avevo anticipato ormai quasi un anno fa. Ho alcune critiche da farti, le dissi, ma sono fondamentalmente d’accordo con la tua impresa. Lei mi rispose: grazie per l’accordo e grazie per le critiche.

Nel nostro paese la questione della lingua è sempre stata una questione politica. Oggi viene posta soprattutto da donne e questo corrisponde al fatto che oggi la politica più viva è delle donne.
Al centro del lavoro di Alma Sabatini c’è, precisamente, la questione del rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali. Le Raccomandazioni, il cui scopo è essenzialmente pratico, vogliono che la rappresentazione linguistica della differenza sessuale non sia di pregiudizio al sesso femminile. Ma, in contrasto con la soluzione di chi, per eliminare la discriminazione, propone l’invisibilità linguistica della differenza sessuale, le Raccomandazioni sono per la sua rappresentazione nelle forme proprie della lingua.
La natura politica della questione viene in luce solo se teniamo presente lo scopo delle Raccomandazioni nella sua interezza. Mi spiegherò alla buona. Normalmente Margaret Thatcher (le chiedo venia, tiriamo fuori sempre lei) è un primo ministro, ma può diventare una maledetta troia nel linguaggio dell’opposizione. Il rispetto della sua carica si esprime prescindendo dalla sua identità sessuale, identità che le viene pittorescamente restituita dalla rabbia di un avversario, sicuramente maschio e probabilmente indignato con lei per qualche buona ragione.
Non si tratta di privare le opposizioni del loro gergo, se gli serve a fare il loro mestiere. Ma non si può nemmeno mutilare una lingua della sua potenza espressiva. La lingua italiana, per esempio, è capace di significare in una sola parola l’occupazione sociale e il sesso di una persona: operaia, operaio, pescivendola, pescivendolo… Perché allora non diciamo ministra, ministro? La risposta si presenta piuttosto facile: per ragioni extralinguistiche, come la secolare esclusione delle donne dalle cariche pubbliche e la perdurante ostilità di molti verso quelle che accedono a tali cariche. Nel nostro sistema simbolico-sociale, è ammesso pacificamente che una donna lavori in fabbrica o che venda pesci, ma non altrettanto che governi sugli uomini.
Questa risposta è sostanzialmente giusta, salvo che le ragioni indicate non sono veramente extralinguistiche, a causa che il linguaggio verbale (che è, fra i linguaggi, quello più istituito, più storico, più umano) assorbe le ragioni di una cultura, le fa sue, principalmente attraverso l’uso e in forza della competenza linguistica. Che, come ci insegna Saussure, appartiene in prima istanza ai comuni parlanti.
Ma, naturalmente, quella stessa lingua che attraverso l’uso e la competenza dei comuni parlanti ha fatto sue le pieghe mentali di una società sessista, in forza degli stessi principi è disposta a fare suoi gli atteggiamenti, nuovi o antichi, di chi combatte il sessismo. Questo è, in breve, il nodo di problemi in cui Alma Sabatini ha messo i piedi con le sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana.

Lo scrittore androgino
Dopo alcuni mesi dall’uscita delle Raccomandazioni, due insegnanti (che poi interverranno sul Manifesto del 23-4-1986: Graziani e Lazzerini, Il marito del Signor Preside), mi segnalarono alcuni interventi vivamente ostili alle proposte avanzate da Alma Sabatini. Li esaminerò insieme a voi, mi pare il modo più semplice di rendere l’idea del nodo problematico che dicevo prima. Esaminerò, in ordine, gli interventi di Giulia Borgese e Pietro Citati sul Corriere della sera, di Beniamino Placido intervenuto due volte su La Repubblica, e di Umberto Eco su L’Espresso.
Giulia Borgese, Il nuovissimo vocabolario della Donna sapiens, respinge orripilata le Raccomandazioni ma simpatizza con la loro autrice e scherza da cima a fondo. Fa bene, perché l’unico argomento linguistico da lei portato vale ben poco. Per respingere il femminile di finanziere: finanziera, la Borgese oppone che questa parola ha già un suo significato. E cita lo Zingarelli, «il più scolastico dei vocabolari, che le nuove puriste della lingua italiana non hanno neanche consultato». Sbaglia. Lo Zingarelli, infatti, conia per donne anche nomi come chimica o fisica, senza badare al fatto che queste parole hanno già un altro significato. ?Basterà leggersi la Nota sul femminile a pag. 381 del Nuovo Zingarelli minore, undicesima edizione. Il fatto è che, mentre lo Zingarelli si sforza di stare vicino alle tendenze proprie della lingua italiana, Giulia Borgese è vicina a quelle donne la cui ambizione è un titolo professionale messo al maschile. Scrive infatti: «Quanto ci hanno messo le donne a farsi chiamare, quando se lo meritano, avvocato, magistrato, medico o architetto?» Quando se lo meritano… Avremmo insomma una specie di nostra carriera per cui le più brave passano al maschile e le altre restano con un titolo al femminile.
Per Pietro Citati le Raccomandazioni sono un libro tutto da ridere, un vero capolavoro comico. A parte questo giudizio (ricordo, per parte mia, d’aver trovato comicissimo un titolo apparso sui giornali dieci anni fa: Moro rapito dalle Br), l’argomento più strettamente linguistico di Citati sarebbe che nomi come uomo e scrittore «non sono maschili: sono androgini». Che cosa vuol dire? Escluso che egli ignori la teoria corrente dei generi grammaticali, in italiano, ed escluso anche che voglia cambiarla, ho pensato che si tratti di una sua idea sul rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali, un’idea dettata dalla sua familiarità con la scrittura letteraria.
Mi spiego. La letteratura è come una continua ricerca di superamento della convenzionalità che sembra caratterizzare i segni del linguaggio verbale. La letteratura, specialmente la poesia, cerca di fare che ci sia rispondenza fra il significante e il significato, quasi aspirando a trovare una rispondenza fra il segno e la cosa. Così, davanti al maschile non marcato usato per indicare individui di sesso maschile o femminile, Citati vuole pensare che il maschile non marcato non sia veramente tale, ma che sia compenetrato, nel suo stesso significato, di sesso maschile e di sesso femminile. Androgino, appunto.
Se questa mia interpretazione non è tutta sbagliata, allora la mia critica al suo pezzo sul Corriere è fondamentalmente una sola, il suo non aver capito o non aver detto che Alma Sabatini, da lui presa in ridere, è molto vicina non dico alle sue posizioni ma certamente alla sua preoccupazione, che si sente in tutto il suo articolo, di salvare la differenza femminile dalla omologazione al maschile.
All’opposto di Citati, Beniamino Placido e ancor più Umberto Eco, nelle loro critiche alle Raccomandazioni, enfatizzano la convenzionalità del rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali. C’è da dire che né l’uno né l’altro sembra, sottolineo il sembra, rendersi conto che in gioco è la significazione della differenza sessuale. Essi pensano che lo scopo di Alma Sabatini e compagne sia di raggiungere la «parità linguistica». L’espressione è di Placido e traduce semplicisticamente quello che Alma Sabatini chiama simmetria nella rappresentazione linguistica dell’essere donna/uomo.

Il convenzionalismo non basta
Del duplice scopo delle Raccomandazioni, Placido e Eco hanno dunque presente soltanto una parte, eliminare i pregiudizi antifemminili dalla lingua come tale. Se si trattasse solo di questo, il convenzionalismo sarebbe una risposta utile. Ma non si tratta solo di questo.
Non mi soffermo sul primo dei due interventi di Placido, Questori e Questrici, perché è già stato commentato a suo tempo su questo giornale dalle amiche Graziani e Lazzerini, in termini che io condivido pienamente. Al loro commento aggiungo soltanto che la logica economica messa in campo da Placido («la lingua obbedisce anche e sopratutto a una logica economica. Dire il più possibile con il minor numero di parole»), non solo non esiste ma, se esistesse, darebbe più ragione alle avversarie di Placido che a Placido. Anch’io trovo brutto “questrice” ma certo dice di più di questore (sarà uomo o sarà donna?) ed è più… economico di “questore donna”.
Nel suo secondo intervento, Donne in battaglia, egli non menziona più la presunta logica economica della lingua. Ma, invece di avanzare una piccola quanto dovuta autocritica in proposito, il suo tono si fa solo più aspro. Al tempo dei proverbi avrebbero commentato: ha la coda di paglia. Così, dopo aver divagato qua e là, egli prorompe: «Dovete lasciarvelo dire allora: che la vostra concezione della lingua è terribilmente rudimentale». Continua l’infuriato Placido: «La lingua riflette la realtà, voi dite, quindi cambiamo la lingua ecc. Ma chi ve l’ha detto? Ma dove l’avete letto? La lingua serve a riflettere la realtà, qualche volta; ma anche – e più spesso – ad anticiparla; ma anche – e più spesso – a compensarla».
Logica e giustizia gridano vendetta. Se qualcuno gli dicesse che i ciliegi fioriscono, Placido insorgerebbe: ma chi te l’ha detto? ma dove l’hai letto? Solo perché i ciliegi, oltre a fiorire, sfioriscono, fanno foglie, frutti ecc. La sua illogica sparata non fa che coprire una scorrettezza più grave, relativamente al contesto. Le Raccomandazioni non si basano sulla tesi che la lingua riflette la realtà, ma su una tesi ben diversa, più sfumata, e chiaramente esposta nelle prime righe dell’Introduzione. Basterà citarle: «La premessa teorica alla base di questo lavoro è che la lingua non solo riflette la società che la parla, ma ne condiziona e ne limita il pensiero, l’immaginazione e lo sviluppo sociale e culturale».
È sulla base di questa tesi che può prender senso il fare raccomandazioni sull’uso della lingua. Simili raccomandazioni, se la lingua non fosse che il riflesso della realtà, non avrebbero senso alcuno. Ma la logica non dev’essere il forte di Beniamino Placido.
Viene per ultimo Umberto Eco con un pezzo sull’Espresso, intitolato La sentinella con i baffi.
Prima di esaminarlo, vediamo quello che dice, in fatto di sentinelle, La Grammatica storica del Rohlfs.
Nomi femminili come la sentinella, la spia, la guardia, in origine astratti (spia viene da spiare, sentinella da sentire, più o meno come la posa da posare), poi riferiti a persone di sesso maschile, sono rari e fanno problema, tanto che in certi casi l’uso ha finito per portarli al maschile: il podestà, il camerata, il guardiamarina. Fin qui il Rohlfs.
Va detto che le tendenze che hanno agito in passato non comandano pari pari gli sviluppi futuri di una lingua. Oggi, riguardo alla differenza sessuale, è dato osservare, accanto alle forme tradizionali della sua cancellazione linguistica (per esempio, il maschile non marcato), una certa tendenza alla sua neutralizzazione, che ha cause disparate: imitazione della lingua inglese, emancipazionismo femminile, invasione dell’immaginario tecnologico.
Le Raccomandazioni cercano di contrastare questa tendenza perché nega visibilità al sesso femminile perpetuando in forme ammodernate l’antica cancellazione delle donne. Umberto Eco, invece, le è favorevole e questa è, a mio giudizio, la vera ragione per cui egli si oppone al progetto linguistico di Alma Sabatini e compagne. Vediamo con quali argomenti.

La moglie del papa
Il primo capoverso della Sentinella con i baffi è gioco retorico. Per screditare le femministe che intervengono in questioni linguistiche, Eco pretende che il neolgismo herstory (her=di lei, story=storia) coniato dalle femministe americane, sarebbe nato da una loro (ovviamente errata) etimologia di history (storia). Stante però che certe innovazioni avvengono proprio sulla base di etimologie sbagliate, egli spiega quale avrebbe potuto essere la corretta base linguistica di herstory: le femministe americane, scrive, avrebbero potuto dire che, etimologia o no, history può far pensare istintivamente a una storia di lui (his). Dov’è il gioco? Eco si sdoppia: da una parte c’è il professore di etimologia che dimostra l’ignoranza delle femministe, dall’altra c’è il linguista saussuriano che corregge le vedute troppo rigide del professore e soccorre le ignoranti femministe. In realtà le americane hanno coniato herstory non «perché non sapevano di etimologia» ma perché a loro non interessava l’etimologia ma altro, e dell’argomento etimologico si sono servite spregiudicatamente, così come può fare qualsiasi parlante e come Eco sa che qualsiasi parlante può fare.
Passiamo agli argomenti veri e propri di Eco che sono, schematicamente, tre.
Primo argomento. «In molte lingue il genere grammaticale non coincide necessariamente con il genere sessuale.» Gli esempi sono presi del mondo inanimato (dove non ci sono generi sessuali) e poi dalle solite guardie e sentinelle. Siamo di nuovo vicini al gioco retorico. La tesi, grazie a quel “non necessariamente” è innegabile, ma è altrettanto innegabile che in italiano, quando si parla di esseri umani, la tendenza prevalente è di far coincidere il genere grammaticale con quello sessuale.
Secondo argomento. In italiano, come in altre lingue, mettendo al femminile il nome di una funzione, scrive Eco, «non si suggerisce che il ruolo sia ricoperto da una donna, ma che quella donna sia la moglie di chi ricopre quel ruolo». Qui il “non necessariamente” gli è rimasto nella penna (o nel computer). La regola vale (per quello che vale) per le funzioni riservate esclusivamente a uomini. Nessuno oggi pensa che la professoressa sarebbe la moglie del professore. Del resto, nessuno, esclusi i bambini, ha mai pensato che la papessa sarebbe la moglie del papa. Anche i convenzionalisti devono ammettere che la realtà, nella misura in cui è nota ai parlanti, agisce sull’interprestazione dei segni.
Il terzo argomento di Eco è che «le tradizioni linguistiche non si correggono con decisioni al vertice». Con questo argomento io consento dal profondo del cuore. Ma devo aggiungere che, così formulato, esso non dice nulla su una contraddizione da me riscontrata e mai risolta quando insegnavo nella scuola dell’obbligo. Per dirla immaginosamente: se nell’alto Medioevo fosse esistito l’obbligo scolastico come ai nostri giorni, le lingue volgari si sarebbero mai formate? Per anni ho insegnato la nostra bella lingua ai semibarbari delle periferie urbane. Da loro, dai tanti periferici come loro, poteva nascere un nuovo volgare? Voglio dire che, accanto agli interventi per innovare, le nostre lingue conoscono anche, e in maniera ben più massiccia, quelli per conservare e che a questo tipo di interventi non è quasi possibile opporre la forza di un’autentica tradizione.

Sregolatezza regolata
L’errore che troppo spesso facciamo è di non considerare che la vita di una lingua è internamente animata da tendenze e da tradizioni fra loro contrastanti e non sempre accordabili. E di pretendere che la tendenza giusta sarebbe una e una sola. Non è nemmeno necessario che sia una per le esigenze della comunicazione, come alcuni sostengono. L’uniformità viene più dal bisogno di conformità che dalla ricerca di comunicare.
I rapporti delle donne fra loro, con gli uomini e con il mondo stanno cambiando profondamente, e questo fa sì che la significazione della differenza sessuale nella lingua che parliamo, sia diventata una specie di campo di battaglia e un possibile terreno di sperimentazione per tendenze contrastanti. Alla realtà che cambia convengono e sono anzi necessarie sperimentazione e sregolatezza. Penso a un regime di sregolatezza regolata, per dire: di soluzioni linguisticamente accettabili ma fra loro difformi e anche concorrenti. Considero accettabile tutto quello che serve a mettere in parole ciò che altrimenti non avrebbe parola.
La polemica più appariscente è a livello lessicale, dove è più facile pensare di operare interventi, innovativi o conservati. Il lessico, infatti, è l’aspetto più convenzionale della lingua e quello più presente, più consapevolmente presente, ai parlanti. Ma la significazione della differenza sessuale passa anche attraverso i livelli più strutturali della lingua, la morfologia e la sintassi. È a questi livelli che si esercita maggiormente la forza costringente della lingua sul nostro pensiero e, al tempo stesso, si moltiplicano gli errori, i famosi errori di grammatica. Si moltiplicano, cioè, i tentativi spontanei di innovazione linguistica che restano senza sbocco o per difetto di significatività interna o per mancanza di consenso nella comunità dei parlanti.
La polemica sul rapporto fra generi grammaticali e generi sessuali, di cui abbiamo visto insieme un episodio, ci presenta alternative secondo me troppo rigide. Fra la realtà che cambia e la lingua con la sua plasticità, è possibile uno scambio molto più ricco. La sperimentazione linguistica, la sregolatezza regolata che suggerisco (basandomi non sulle nostre capacità ma sulle capacità di quella grande acrobata che è la lingua), non avrebbe solo il vantaggio di valorizzare e quindi coltivare la competenza dei, delle comuni parlanti, togliendo spazio agli autoritarismi di ogni provenienza e dando coraggio alle maestre di scuola. Insieme a questo, verrebbe in luce la posta in gioco e quindi il senso vero della polemica, così che ciascuno, ciascuna possa prendere posizione, com’è giusto che sia possibile trattandosi della lingua che parliamo, che è bene comune, forse il bene che abbiamo più comune.

Nella vita della lingua
Ci agita e ci divide la rappresentazione della differenza sessuale. Che si tratti di questo, lo possiamo ricavare anche da ciò che Eco scrive in conclusione al suo intervento. Come portando un quarto argomento ma per inciso, egli scrive: «Oltretutto, voler femminilizzare i nomi dei ruoli a seconda del sesso, sembra un modo per sottolineare una differenza che non deve riguardare la funzione». Non: sembra, ma è. Alma Sabatini, io e alcune altre, infatti, vogliamo proprio dire che la differenza sessuale non solo viene prima della funzione sociale e coesiste con tale funzione (come lo stesso Eco sa bene, sebbene non voglia dirlo), ma anche che può diventare principio di valore, autentico valore umano, per la funzione stessa, relativizzata in senso non mortifero dalla dualità originaria di essere donna/uomo.
Senza prospettarsi questa posizione ma come intuendola e avversandola, Eco conclude il suo pezzo sull’Espresso in maniera piuttosto strana, con una battuta da uomo messo in minoranza, fatta non per colpire la posizione avversaria ma il senso comune. Giudicate voi. Scrive: «Il vigile non ha sesso, come non ce l’hanno né ‘il’ semaforo né ‘la’ striscia». Naturalmente qui tutti insorgono, dal filosofo al vigile passando per il linguista e lasciando Eco solo a far l’amore con la striscia o con il semaforo.
Eco in realtà sta facendo l’amore con la sua teoria e non è solo. La battuta finale, com’è evidente, rispecchia scherzosamente la sua concezione del rapporto fra genere grammaticale e genere sessuale. Ho già detto che è una concezione convenzionalistica e che non la condivido, senza poter argomentare per ragioni di spazio. Rimando all’ultimo numero della rivista Inchiesta, intitolato “Sessi e generi linguistici”, a cura di Luce Irigaray, e specialmente a quello che vi scrive Patrizia Violi.
Di mio aggiungo che una concezione convenzionalistica del linguaggio verbale non è mai interamente né definitivamente confutabile, per la semplice ragione che il linguaggio verbale non è mai interamente né definitivamente confutabile, per la semplice ragione che il linguaggio verbale è inclinato al convenzionalismo. Ma non vi si riduce mai. Mai. C’è qualcosa, nella vita stessa della lingua, che ci supera. Che ci intriga, ci agita, ci divide.
Il contrasto, dunque, è immanente alla lingua, alla sua vita, e i protagonisti di questa polemica sono e devono restare coloro che della lingua hanno bisogno per capirsi e capire il mondo. Così sono tornata al punto di partenza. La questione della lingua è politica e ne sono protagoniste le donne.

 

(il manifesto – 2 giugno 1988)

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