di Sandra Bonfiglioli
Nella bella riunione di VD3 di giugno 2019 non abbiamo neppure tentato di operare delle critiche basate sul ‘no grazie’. Eppure alcune le fecero alle prime TV tanti anni fa. Ci siamo parlate da subito nei termini di una visione matura nei confronti delle tecnologie in generale.
Ci siamo dette come ci comportiamo, ciascuna di noi, con questo nuovo spazio nel quale siamo. Anche chi non ci sta. Come spesso mi accade sono stupita dall’intelligenza e apertura mentale delle donne che con-vengono in Libreria. Le strategie di uso, abuso e presa di distanza di ciascuna da/in questo spazio sono già un compendio di buone pratiche.
Ascoltando, ho pensato a cosa faccio io. Parlo di solito per un’ora al giorno con Lorenza che abita a Chicago senza spendere un soldo, più o meno, chiacchierando come fossimo in salotto sorbendo un tè, a volte facendo comunella con altre/i della famiglia eventualmente presenti. Una delizia. Ma a Natale, quando Lorenza’s family non viene alla tavolata di 30 sorelle, nipoti, zie e cugini, nonni e amici che si tiene a casa mia, lei dice che il loro Natale non riesce a decollare. Ecco il limite fra relazione a distanza e in presenza, nell’amore e nel bisticcio. Esiste un nome per questo limite che sappiamo esistere e riguarda sia l’uno che l’altro spazio? Vorrei conoscerlo.
Ho chiuso Facebook in un minuto dopo che Mark Zuckerberg ha detto che milioni di dati sono passati di mano senza controlli e con una efficace intenzionalità. Ho saputo che 170 milioni di persone hanno fatto come me. Bravò! Come dicono i francesi. A me Facebook non piace. Prude dentro di me una radice contadina che mi ha salvato alcune volte e mi fido di lei più che di Mark Zuckerberg. Ho sempre pensato “che ne faranno di tutti questi dati?” Foto di figli, dire dove sono, capire chi amo e chi no. Sono cose intime, erotiche, sensuali che condiscono al meglio i mestieri del vivere. Antonella Nappi l’ha detto, perché mettere in pubblico la propria intimità, o lasciarla osservare senza replicare?
A casa le mie amiche dicono che è così e basta. Non sono spaventate. Io sì.
Ho ragionato da tempo sullo spazio virtuale non con intenzioni critiche ma per capirne gli aspetti fisici. Ho qualche competenza di fisica matematica. Qualsivoglia cosa o configurazione è dotata di uno specifico assetto fisico. Mi fido della capacità esplicativa di questo approccio. Non ho usato la lente e le equazioni, ho selezionato gli articoli che ne parlano. Ebbene, di quale tipo d’informazioni si avvale la rete? La sua potenza economica è dovuta all’essere un mercato mondiale che orienta e offre merci acquistabili, dal pomodoro, alle azioni di un’impresa, all’ultimo film americano, alla lista degli iscritti alle prossime elezioni.
Le informazioni vengono raccolte facendo osservare da algoritmi sufficientemente intelligenti i nostri comportamenti in rete, classificati e diffusi in sistemi d’imprese interessate a meglio orientare il loro mercato potenziale. Su quali merci m’informo, quante volte ritorno sullo stesso prodotto, sono donna o uomo, ho figli oppure no, mi piace il cotone o la lana, sono influente oppure no, quanto mi soffermo su un prodotto, che film mi piacciono. L’intelligenza di un buon algoritmo è sufficiente per iniziare e poi migliorare man mano che l’affare procede. Ma l’informazione la forniamo noi, personalmente, gratuita e senza potere controllare il suo uso. Ecco dove sta uno spazio politico. Enorme, attraverso il quale possiamo orientare politiche di redistribuzione di ricchezze, sostegno i processi che ci interessano, introdurre misure di contenimento. Noi consumatori abbiamo in mano una grande forza trasformativa.
Abbiamo un interesse politico in quanto donne su questa materia? Sì. Le tecnologie, figlie del pensiero scientifico associato all’ingegneria sono smisurate. Questa non-dimensione ci inquieta, è incommensurabili alle misure del corpo umano. Le misure che noi donne conosciamo così bene grazie alle pratiche di tenere nella nostra pancia e poi allevare, “tirare su” diceva Ida Farè, le creature fisicamente, culturalmente e spiritualmente. Tutte queste pratiche ci hanno posto severi e inappellabili condizionamenti che un’altra creatura ci impone per vivere. La nostra libertà la complichiamo con misure di limitazione del desiderio per trovarne un altro, un desiderio di relazione profonda.
È piccolo il dono che facciamo alle multinazionali quando accettiamo di farci osservare? È un dato di fatto e non possiamo farci niente? Certo che possiamo. Ma dobbiamo allontanarci dalla sensibilità della nostra generazione, nata e vissuta nella maestà del lavoro operaio e manifatturiero. Del produrre e non del consumare. Consumismo è stato un concetto, e una realtà, non amata, cioè aborrita dalle élite culturali.
Siamo sostituibili? Le informazioni che forniamo possono essere sostituite da altre osservazioni? No. Perché? Dal più semplice limite alla conoscenza scientifica su base oggettiva. Non può osservare ciò che pensiamo e sentiamo come esseri umani. Dobbiamo raccontarlo personalmente. E se non lo facessimo? Se lo facessimo a condizioni di…? In breve, esiste una rottura dell’impianto epistemologico alla scala del corpo umano. Almeno finché rimane tale.
(Via Dogana 3, 20 giugno 2019)