di Chiara Zamboni
Vorrei parlare in primo luogo del dibattito in corso sulla differenza sessuale. Ci sono molte posizioni e teorie. Vorrei prima trattare due che sono in relazione oppositiva tra loro per poi concentrarmi sul pensiero della differenza sessuale e della passione che tale pensiero esprime.
Le due teorie in conflitto e paradossalmente complementari tra loro sono la teorie del genere, o gender theory e la teoria che si fonda su una complementarietà naturale tra donne e uomini.
La gender theory è nata nel campo culturale anglosassone e si è estesa poi anche in Italia con il nome di studi di genere. L’elemento centrale di questa teoria, a cui molte studiose hanno contribuito, è di considerare separato il sesso biologico da ciò che si dice dell’essere donna e dell’essere uomo sul piano dell’ordine simbolico dato, sul piano del linguaggio. Mentre il sesso biologico è casuale, riguarda il corpo e non è politico – essere di sesso femminile o maschile capita a caso -, invece è decisamente politica l’organizzazione culturale attorno alla posizione femminile e maschile. Questo perché nelle teorie del gender il linguaggio è interpretato rigorosamente come strumento principale dell’ordine dominante ed è considerato come ciò che più di ogni altro aspetto influenza i comportamenti umani. Con un termine caro a queste posizioni si nomina tale capacità di influenzare il comportamento come capacità performativa del linguaggio. Si performano i comportamenti, li si modella, non tanto dando delle regole etiche, ma anche solo descrivendo tali categorie sessuali oggettivamente per aspetti riconoscibili, e in questo modo influenzando indirettamente i comportamenti.
L’impegno politico di questa posizione è di trasformare le categorie linguistiche per creare altre condizioni di vivibilità. La libertà si guadagna nella ridiscussione delle categorie linguistiche.
Considero che il valore di questa posizione sta nel mostrare l’importanza del linguaggio come luogo di scontro politico e simbolico. La debolezza di questa stessa posizione è di aver sganciato il sesso biologico dall’interpretazione linguistica. Una filosofa americana che critica la gender theory, pur partendo dai suoi presupposti, è Judith Butler, che non a caso ritiene che il sesso non possa essere sganciato dal linguaggio, ma ne è modellato a sua volta. C’è tuttavia una seconda debolezza della teoria del genere, ed è l’affermazione che tutto dipenda dalla costruzione linguistica umana. In questo senso non si riconoscono dipendenze né dal corpo, né dagli altri. Tutto è costruibile linguisticamente, culturalmente, senza limiti. Questa capacità costruttiva è in mano sia all’ordine dominante sia a chi si oppone a tale ordine indicandone un altro, diverso, sempre però linguistico e umano.
Una radicalizzazione di tale posizione ha portato alla teoria qeer, una teoria che decostruisce tutte le costruzioni linguistiche riguardanti il sesso e la differenza sessuale e propone un gioco simbolico di sottrazione ad ogni definizione e costruzione categorizzante. La teoria queer mostra in questo senso la via di un’esplorazione di pratiche di gioco teatrale dei ruoli sessuali puramente decostruttiva in una esplorazione delle possibilità della libertà. Il suo punto debole è il fatto che – come base di appoggio di tali giochi – presupponga soggetti individuali fondati sulla pura potenza di una singolarità senza aggettivi, senza legami, istituita solo su se stessa. Questa è a sua volta una teoria ingenua.
La critica che porto alla gender theory è quella di considerare il linguaggio solo come potere performativo – intendendo con ciò come producente comportamenti indotti -, e costruttivo, per il fatto che tutto dipende dal linguaggio che adoperiamo. Essa sottovaluta di conseguenza tutto quello che il linguaggio può portare di inventivo, di pensiero dell’esperienza, di linguaggio parlante, creativo, e non soltanto dunque forma del potere.
Vorrei richiamare l’attenzione sul fatto che le teorie della differenza sessuale che considerano la differenza sessuale come complementare tra donne e uomini hanno il difetto opposto. Queste teorie calcano la mano sia su qualità specifiche femminili e maschili di ordine storico sì, ma radicato nella tradizione dei popoli e dunque inaggirabili, sia sulla dinamica della generazione dei figli, vista come legge di natura. La critica che si può portare a queste teorie è che sottovalutano l’influenza culturale e performativa del linguaggio dominante, che è indubbia, anche se, come abbiamo visto, non è determinante. In altre parole hanno una posizione ingenua rispetto al linguaggio nel suo peso culturale. Sottovalutano i codici simbolici da cui si parte e li reificano come ovvi, appellandosi in definitiva alla tradizione come autorità e alla natura in modo non problematico.
Il lato positivo di questa posizione è che accoglie l’esistenza di limiti nella vita umana, e che sostiene che non tutto dipende dalla capacità costruttiva dell’essere umano.
In questo momento nel dibattito in Italia c’è una grande confusione attorno a queste teorie. La teoria del genere è stata adoperata malamente per invitare ad una posizione civile non omofobica nell’educazione scolastica. Ma una visione giusta dell’omosessualità non ha a che fare con la teoria del genere, interpretata come scomparsa dei generi. Infatti le pratiche omosessuali valorizzano la differenza tra gay e lesbiche, che sono accomunati/e sì da una condizione simile rispetto alla richiesta di diritti civili, ma vivono pratiche molto diverse. Una linea di tendenza del dibattito contemporaneo è di assumere la teoria del genere come la cancellazione dei generi, azzeramento della differenza, piuttosto che come conflitto politico sulle definizioni di genere nell’ordine del linguaggio, che è stata la priorità politica di questa teoria e il suo contributo più importante.
Vengo a questo punto al pensiero della differenza sessuale come passione della differenza. Sottolineo l’espressione “passione della differenza” perché è la chiave che offro per leggere questo pensiero. In quello che qui scrivo so di avere un debito aperto nei confronti di molte elaborazioni e di un dibattito che dagli anni ’80 del Novecento fino ad oggi ha articolato posizioni tra loro collegate. Penso al lavoro di Luce Irigaray che in Etica della differenza sessuale ha invitato a considerare la differenza sessuale come ciò che va pensato nella nostra epoca. Collego questo invito al pensiero espresso dal femminismo, che è un movimento politico di donne che ha avuto ed ha come suo fulcro la libertà femminile. Collegare il pensiero della differenza sessuale al femminismo è fondamentale. Mi permette di dire che il pensiero della differenza sessuale nasce per una necessità avvertita dalle donne di ricercare liberamente espressioni, pratiche politiche, azioni in fedeltà al proprio desiderio. E nasce perciò stesso squilibrato e asimmetrico perché la sua radice è quella di mettere in parole l’autenticità femminile e questo rappresenta un vero e proprio imprevisto nella cultura maschile.
Non a caso nel primo libro di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, parlavamo di passione della differenza nel doppio significato di avere passione per la differenza, cioè di avere desiderio di parlarne, perché sentivamo che lì ne andava di noi, del senso delle nostre vite, ma anche con il significato di patire – soffrire -, cioè avvertire che era un peso questa differenza che ci limitava ad una posizione che sentivamo stretta, e però anche patire come qualcosa che abitavamo dall’interno e che portavamo comunque con noi.
Il neutro, cioè la cancellazione della differenza sessuale, in termini culturali è stato proposto dal pensiero maschile come il massimo dell’apertura alle donne: si può riassumere nell’idea che siamo tutti esseri umani senza differenza. Nella politica si è espressa nell’emancipazione femminile. Gli uomini hanno pensato di offrire alle donne il massimo che potessero loro offrire sul piano del valore cioè i diritti e le forme della politica pensati da loro stessi. In altre parole una eguaglianza tra uomini e donne che in realtà eguaglia le donne agli uomini. Alla base ha come modello la rivoluzione francese e ciò che ha offerto, cioè i diritti di cittadinanza nella partecipazione alle forme dello stato e delle istituzioni a singoli individui indipendentemente dal sesso. In questa concezione di un neutro culturale e politico – in realtà maschile – le donne non possono che sentirsi onorate di accedere alle stesse posizioni maschili. Ora il femminismo è nato proprio dal sentimento di estraneità a questa offerta.
Senza disprezzare le conquiste storiche degli uomini in termini di libertà, è chiaro che in esse non si è espressa la differenza femminile con l’autorità di un discorso proprio, di una propria ricerca di significati e di pratiche. La passione della differenza sessuale, di cui sono portatrici le donne, apre ad altro. Apre la via ad una ricerca femminile di pratiche politiche e culturali, di modi di pensare e di vivere che esprimano un’eccedenza dell’esserci delle donne non riducibile all’eguaglianza e alle istituzioni storiche maschili.
Questa passione della differenza come eccedenza rispetto alle istituzioni maschili è stata pensata come l’imprevisto nei confronti del simbolico dominante. Ha coinvolto l’autorità femminile nel mettere in circolo il pensiero che nasce dall’esperienza singolare che una donna ha del mondo. E questo lo si è visto in diversi campi, da quello politico a quello filosofico, letterario, teologico e così via a partire da un sentimento comune. Ha avuto come leva il desiderio diffuso di tenere fede alla propria esperienza e cercare le parole per dirla.
Per questo una delle regole che ci si è date in questo contesto di pensiero di matrice femminista è che nessuna può parlare al posto di un’altra. Che ad esempio l’esperienza delle donne di paesi in guerra, di paesi con un livello alto di sofferenza non può essere raccontata se non dalle protagoniste di tale esperienza in dialogo con donne di altre realtà. Le pratiche femministe non sono pratiche sociologiche né si fa teoria oggettiva sulle donne, neppure quando a parlare sulle donne siano delle donne. Si può parlare delle relazioni che apriamo con altre donne e del sentimento e del pensiero che nasce in queste relazioni e si può interrogarci e interrogarle.
L’aver trasformato il sentirsi estranee, eccedenti un certo ordine dominante in una ricerca libera di significazioni, l’aver metamorfosato, con il legame con altre donne, l’estraneità in una fedeltà alla ricerca di senso della propria esperienza è stata una via politica, di scrittura e di pensiero che non è caduta nell’errore della gender theory di ritenere che tutto dipenda dalla costruzione linguistica e cioè dalla cultura.
Sappiamo che il linguaggio è il medium per eccellenza, che dà senso al mondo coinvolgendo l’anima. Tuttavia è proprio delle posizioni più accorte nei confronti del linguaggio sapere che il linguaggio ha limiti, che lo fanno dipendente da ciò che non è linguistico. Nella ricerca femminile letteraria, artistica, espressiva è risultato evidente che il rapporto tra linguaggio ed esperienza risulta in ogni caso sfasato. Non esiste coincidenza. La ricerca infinita di parole vere, che ha guidato tanto pensiero femminile, ne è un segnale. Del resto l’idea stessa di inconscio impedisce tale coincidenza tra linguaggio e realtà. È interessante che le donne diano molta importanza al corpo. Ora, il corpo è in gran parte inconscio, così che la nostra esperienza del corpo non può essere oggettivata. Il rapporto con il corpo e con il mondo di cui facciamo esperienza prende dunque una qualità altra nell’esperienza delle donne.
Siamo dipendenti dal linguaggio ma siamo dipendenti anche dall’esperienza. La ricerca libera consiste nel cercare il senso di ciò che ci accade e di ciò che desideriamo.
Il pensiero della differenza accetta la dipendenza dal linguaggio, come da ciò che ci accade e che non dipende da noi. La scommessa di libertà sta nel trovare vie inventive e impreviste per esprimere in forme nuove nel linguaggio esperienza singolari. Occorre dunque una lotta politica nel linguaggio per dare espressione libera ad un’esperienza cha ci è capitata, non abbiamo scelto, che costituisce il tessuto della nostra vita. Si tratta del tentativo sempre ripetuto di esprimere la fedeltà all’esperienza, nella consapevolezza che, se riusciamo a trovare le parole vere per essa, questo è un bene non solo per noi ma per tutti. Perché l’esperienza femminile indica un imprevisto che fa grande una civiltà di donne e uomini.
(Confronti, 10 Dicembre 2015)