Cinema. Addio a Jeanne Moreau. Voce inimitabile, broncio seducente era un’icona dell’immaginario. Da «Ascensore per il patibolo» di Malle a «Jules e Jim» di Truffaut ha attraversato il cinema della modernità
di Cristina Piccino
Di sé rivendicava soprattutto «l’indipendenza»: «Oggi questa espressione forse non è più di moda ma questo non significa che dobbiamo modificarla. E poi le parole contano poco, vale ciò che si fa, come si vive, con che libertà si affronta il mondo, questo sì che è importante». E lei, Jeanne Moreau non era mai cambiata, questa libertà, questo «io sono libera» che aveva sempre mostrato nella sua vita e nelle sue scelte artistiche non li aveva messi da parte. Magnifica attrice, la voce roca anche di sigarette, tante, sul set e fuori – non c’è quasi un ritratto che la mostri senza fumare – e una bellezza «difficile da inquadrare» l’avevano resa subito un’icona della modernità; lo sguardo malinconico nella Parigi in bianco e nero di Louis Malle (Ascensore per il patibolo), la risata sotto ai baffi dipinti e la maglietta a righe mentre corre insieme ai suoi due amanti in quel capolavoro che è Jules e Jim, sono immagini che hanno attraversato generazioni di sogni cinefili e non solo. Decenni dopo la ritroviamo davanti alla macchina da presa che canta rimpianti e desiderio: «Each man kills the thing he loves», sussurra nel bordello di Querelle, l’ultimo film di R.W. Fassbinder, arrivato al pubblico che lui era già morto. E intanto si lascia scivolare tempo e inganni sul viso sempre bellissimo tra marinai e marchette pieni di muscoli, iperrealismo di carne sangue e spudoratezza che, era l’inizio degli anni Ottanta, sembrano svaniti dalla pellicola (digitalizzata) e dalla realtà.
Libera Jeanne Moreau quando firmava nel 1971 il manifesto delle 343 in favore della legalizzazione dell’aborto, dicendo con quella sua ironia sempre elegante di non essere femminista – «Amo gli uomini e mi danno fastidio gli ‘ismi’ di qualsiasi segno». O quando, nel 2013, si è schierata accanto alle Pussy Riot chiedendone la liberazione. E ancora quando, quasi novantenne, rispondeva alla domanda sulla relazione con Miles Davis – passion folle – con un: «Non c’è bisogno di andare a letto con un uomo per amarlo».
Era nata nel 1928 a Parigi, Jeanne Moreau, il padre era un ristoratore francese, la madre inglese, una danzatrice. Lei era cresciuta in mezzo a questa coppia e ai loro litigi, il padre l’aveva destinata a un marito e ai figli, pensare che voleva un maschio, l’avrebbe chiamato Pierre. Però da ragazzina, insieme alle amiche Jeanne si infila in un teatro, sono gli anni della guerra, Parigi è occupata (li racconterà nel suo secondo film da regista L’Adolescente, 1978) e quell’Antigone in scena la folgora: «Mi sono dedicata alla recitazione con lo stesso trasporto con cui si aderisce a una fede religiosa» racconterà.
Il debutto avviene nel 1947, sul palcoscenico di Avignone, nel 1949 arriva al cinema, il film è Dernier Amour di Jean Stelli a cui seguono altri piccoli ruoli – con Henri Decoin, Marc Allégret, Becker.
La rivelazione arriva però con Ascensore per il patibolo, che fa di lei una star. La tromba sublime di Miles Davis accompagna l’erranza del personaggio di Moreau tra le strade parigine che la nouvelle vague sta reinventando. Raffinata, le labbra piene e quella voce unica, è il corpo di una seduzione lunare, misteriosa, melanconica accordata al tempo e alle sue cicatrici interiori, le stesse che ritorneranno nei personaggi pensati per lei da altri grandi registi del cinema moderno: Peter Brook (Moderato cantabile, dal romanzo di Duras), Michelangelo Antonioni (La notte, ancora un classico dello spaesamento e della crisi di coppia), Jean-Luc Godard (un cameo in Une femme est une femme), Orson Welles (Il processo), Buñuel (Il Diario di una cameriera), Jacques Demy (La Baie des anges, il diamante nero del regista in cui Moreau affronta con fierezza spavalda l’azzardo del potere). E ancora Joseph Losey (Eva, l’oscurità della seduzione).
Jules e Jim, il racconto dell’amore a tre, dal romanzo di Henri-Pierre Roché (Catherine era ispirata alla madre di Stéphane Hessel) svela un’altra Moreau: Truffaut lascia fuoricampo l’aura «noir» per liberarne l’allegria, una spensieratezza irriverente, la risata gaia con cui attraversa il Tourbillon – come recita la canzone di Rezvani – degli amori e dell’esistenza.
Dopo un incontro con Jean Renoir per Le Petit Théâtre (1969), film a episodi in cui uno, La cantante, è costruito su di lei che canta Quand l’amour meurt, Moreau lavora con Paul Mazurski, Carlos Diegues, in Francia la chiamano i nuovi registi del momento: André Téchiné la vuole per il suo esordio, molto bello, Souvenirs d’en France senza dimenticare Nathalie Granger di Marguerite Duras, riferimento questo della scrittrice che torna spesso nella sua carriera. L’attrice è tra le predilette di Welles (Falstaff, Il processo, Una storia immortale) a cui la lega una profonda amicizia, con Losey gira Mr. Klein accanto a Alain Delon, è in Gli ultimi fuochi di Kazan.
Il tempo passa, Moreau nel segno dell’indipendenza accetta scommesse sempre nuove e diverse. Ma anche questo appartiene a una grande interprete quale era, giocare e mettersi alla prova, personaggio dopo personaggio. Ecco che allora da L’amante di Annaud succede di trovarla con Ozon (Il tempo che resta) e Manoel De Oliveira (Gebo e l’ombra). O accompagnare Amos Gitai tornando a Avignone in La Guerre des fils de lumière contre les fils des ténèbres, la voce, sì ancora quella, appena più velata di raucedine tra le macerie di un’utopia; e in due film, Désengagement e Plus tard tu comprendras. Pronta sempre a ricominciare.