di Adriano Sofri
L’Avvenire ha pubblicato ieri, nelle pagine di “E’ vita”, un brano del pamphlet di Luisa Muraro che sta per uscire per l’editrice La Scuola: “L’anima del corpo. Contro l’utero in affitto”. La interessante lettura non mi è bastata, profano come sono e superato dagli eventi, a farmi un’idea adeguata dell’opinione di Muraro. Mi ha bensì colpito l’inciso in cui l’autrice, argomentando l’“impronta maschile” della “gestazione per altri”, osserva che “da sempre l’uomo ha dato alla procreazione un contributo materiale solo biologico: la paternità tradizionale, infatti, consiste più nel fatto simbolico (il nome) che nell’esperienza vissuta.
Non così la donna, che alla procreazione dedica anima e corpo per mesi e anni, ricavandone gioie e dolori che ricorderà tutta la vita. E che per farlo corre rischi per la salute e la vita stessa…”. L’uomo ha da sempre voluto risarcirsi del contributo marginale e irrisorio, benché necessario, alla procreazione, proclamandosene protagonista e facendo della donna un mero strumento della sua realizzazione. Ha praticato ferite che mutilassero le donne del piacere, riservandolo a sé, e riducendo loro alla materiale fertilità. Il figlio è stato ed è, nelle culture maschili, figlio del padre, in barba alla natura (Mater certa…). L’uomo ha detto della (sua) donna che “gli ha dato un figlio”, o molti più di uno. Ha inventato cerimonie in cui fingersi incinto e simulare in pubblico le doglie del parto mentre la donna partoriva in una capanna. Ha proclamato solennemente la patria potestà: “Sono in potestà nostra i nostri figli, che abbiamo procreato…”. L’ipertrofia culturale della paternità ha voluto vendicare la minorità naturale dell’uomo nella procreazione. Sicché si è tentati di dire che la grandiosa e magnanima mitologia della paternità può essere definita, appena rovesciato il cannocchiale, come una Paternità Surrogata. Senza pagare affitto, quanto all’utero.
Interpreto così l’inciso di Muraro sul segno maschile della cosiddetta maternità surrogata. Detto questo, dubito fortemente che la denuncia della sua prevalente impronta maschile valga a far retrocedere l’ideologia del desiderio di un figlio “proprio”, sia pur passato attraverso il corpo di un’altra e le proprie tasche.
(il foglio quotidiano, 1 aprile 2016)