14 Maggio 2013

La politica del desiderio, oggi


Intervento di Laura Colombo a Spinea per un incontro sul tema “LA POLITICA DEL DESIDERIO” organizzato dall’Associazione culturale Identità e Differenza il 6 aprile 2013

Questa sera parliamo insieme di desiderio, non nel senso alienato della perdita di sé nella rincorsa di oggetti e successo. Nel nostro discorso il desiderio lo leghiamo strettamente alla politica, richiamandoci direttamente al movimento delle donne, che nel secolo scorso ha compiuto l’unica vera rivoluzione duratura (come ha detto lo storico Eric Hobsbawn, recentemente scomparso).

Che cos’è questa cosa rivoluzionaria che chiamiamo femminismo? In parole semplici possiamo dire che è un movimento che ha cambiato la Storia perché ha messo al mondo la libertà femminile e questa ha modificato totalmente la vita di tanti uomini e donne.

C’è stata una mossa fondamentale che ha dato inizio alla trasformazione radicale del rapporto tra i sessi e della società. Si è trattato che molte donne hanno abbandonato la politica mista, eravamo negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, in un momento storico ricco di movimenti sociali che mettevano in discussione la cultura e la politica, le donne uscivano dai gruppi misti per trovarsi tra sole donne. E avevano la consapevolezza che quel gesto, trovarsi tra donne e parlare a partire dalla propria esperienza di tutto quello che era sempre stato ben chiuso in un cassetto (la sessualità, la maternità, il lavoro, il rapporto con gli uomini, il rapporto con la madre, con la cultura, …) fosse già politica. Sentivano che solo prendendo in mano la propria vita in prima persona e non consegnandosi alle aspettative maschili, al destino patriarcale disegnato per le donne (essere mogli e madri), solo in questo modo avrebbero potuto capire chi fossero davvero e si sarebbero potute avvicinare al proprio desiderio, al proprio sentire autentico. Sapevano anche che tutto questo avrebbe trascinato un cambiamento rivoluzionario, era una strada di non ritorno. È proprio dalla separazione e dal trovarsi tra donne che ha potuto nascere quella libertà che oggi si riflette in conquiste sociali stabili: per le donne è normale studiare, uscire di casa senza sposarsi, viaggiare con le amiche, avere o no un figlio, amare liberamente, stare da sole, cose impensabili fino a pochi decenni fa, quando i figli nati fuori dal matrimonio erano chiamati “illegittimi”, non avevano gli stessi diritti dei figli nati in un matrimonio e le donne incinte fuori dal matrimonio subivano la riprovazione sociale.

Il trovarsi tra sole donne di quegli anni è stato soprattutto la ricerca e la scoperta di nuove parole per dire l’esperienza femminile autentica, facendo un salto in avanti rispetto alla – seppur sacrosanta – critica all’oppressione che le donne vivevano. Si tratta di quello che alcune nominano come “politica del simbolico”, “esistenza simbolica”, espressioni forse un po’ oscure che però se riusciamo ad avvicinarci possono illuminare la nostra vita (a me è successo così).

Per cercare di cogliere la potenza del simbolico, partiamo da una favola Il cavaliere e le ingiustizie, di Marina Valcarenghi, tratta dalla raccolta Il buio è un cavaliere. Racconta di un cavaliere, abile spadaccino, che gira il mondo per eliminare le ingiustizie: in un paese sconfigge il mostro che mangia una donna al giorno, poi libera le donne e gli uomini con gli occhi neri dalla tirannia di un re che impediva loro di uscire di casa, e ancora, nel paese dove gli abitanti facevano favolose torte al formaggio che solo il principe poteva mangiare, assesta due colpi di spada e del principe non se ne parla più, così tutti si possono tuffare sulle torte al formaggio. Poi arriva nei pressi di un villaggio e vede uomini, donne e bambini, tutti con bellissimi capelli, riuniti a discutere. Quando chiede cosa stia succedendo, gli dicono che il re ha ordinato a tutti di tagliarsi i capelli, ma a loro piacciono così. Il cavaliere parte lancia in resta, ma … “«Fermo, bel cavaliere» gli disse allora una ragazza con una lunga treccia e gli occhi brillanti «non pensarci tu, ci pensiamo noi. Li salviamo da soli i nostri capelli.» «Ma come» protestò Lampo. «Tu intervieni oggi» continuò la ragazza, «ma domani arriverà un altro re che vorrà tagliarci i capelli e chi sa cos’altro e tu non ci sarai. E allora non serve a niente. Dobbiamo cavarcela da soli di modo che si sappia bene che nessuno ci potrà obbligare a vivere in un modo che non vogliamo.»” Il cavaliere protesta che lui ha sempre riportato la giustizia nel mondo, non è vero che è inutile quello che fa. E lei lo invita a tornare nei paesi che ha salvato e così lui si rende conto che la ragazza ha ragione: nel primo paese è arrivato un mostro che mangia non una, due donne, nel secondo le persone dagli occhi neri sono di nuovo rinchiuse, nel terzo le torte al formaggio prendono ancora la via della reggia. Allora torna dalla ragazza e … “si tolse il mantello rosso, ci mise sopra la spada e rimase a vivere lì dove imparò a lavorare, a giocare e a divertirsi insieme a tutti gli altri”.

La ragazza agisce politicamente, nel senso basilare di una sapienza che nell’agire genera libertà per sé e per gli altri. Il cavaliere rappresenta quello che normalmente viene inteso per politica nel suo senso più nobile (cioè quando il termine non indica l’interesse personale e la volontà di dominio): testimoniare la giustizia e la verità e combattere l’ingiustizia a qualunque costo, anche a costo della vita. Addentriamoci nell’agire politico di lei. Innanzi tutto, mette in primo piano la dimensione della singolarità e della soggettività, il desiderio di esserci e di contare, la voglia di fare della propria vita un’avventura vissuta in prima persona e l’intento di darsi significato e trovare parole di verità sulla propria esperienza. Luisa Muraro, che è una filosofa che con altre ha fondato la Libreria delle donne di Milano, lo chiama desiderio di esistenza simbolica, vale a dire la possibilità di avere “senso di sé, sicurezza di sé, conoscenza di sé, sentirsi esistere”. Detto in altri termini, poter dare un senso libero a ciò che si è e si vive. Il senso libero è quello che il tu, in prima persona, puoi produrre, trovando parole adeguate alla tua esperienza e ai tuoi desideri.

Non so se qualcuno di voi ha visto il recente film Viva la libertà di Roberto Andò. È la storia del segretario politico del principale partito d’opposizione, grigio e depresso, protagonista di compromessi e tatticismi che stanno portando il partito alla rovina. In crisi per i sondaggi pre-elettorali in calo e le forti contestazioni, decide di sparire. Per vicende che non sto a spiegare fino in fondo per non rovinare il film, prende il suo posto il suo gemello, identico a lui, uscito da poco da una casa di cura per malattie mentali. Quest’uomo imprevedibile, geniale, fantasioso, in contatto con se stesso, amante della verità e straordinariamente comunicativo riesce a riaccendere la passione innanzi tutto all’interno del suo partito e anche tra la gente. Il suo portaborse a un certo punto gli confessa, quasi in colpa: “Il fatto è che uno come lei, io stesso lo voterei”. Durante il comizio finale della campagna elettorale, in una piazza gremita, infiamma gli animi dicendo che nel grande cartello che fa da sfondo alla scena ci sono parole importanti (le solite: diritti, lavoro, etc) ma manca quella essenziale, passione, e recita una poesia di Bertold Brecht che invita a un rivolgimento profondo: non aspettarsi o rivendicare cambiamenti (postura che invita all’eterno lamento) ma cercare risposte dentro di sé e attuare le modificazioni in prima persona. Quest’uomo porta avanti una politica piena di citazioni colte, veicolate con un linguaggio semplice; una politica fatta di gesti gentili e di ironia sottile, non di urla. Una delle scene più visionarie è quella in cui viene ricevuto dalla cancelliera tedesca e insieme ballano un tango a piedi scalzi, invece di discutere di crisi, spread e diplomazia.

Anche il Movimento 5 Stelle e la loro recente vittoria elettorale a mio avviso mostrano che il desiderio di esistenza simbolica è potente e può essere agito pubblicamente. Le donne e gli uomini del M5S ci mostrano il desiderio di esserci e contare, il desiderio di sentire che è possibile l’espressione di sé, sentire che la rete di relazioni intorno a sé è forte e capace di portare avanti un cambiamento, capire che il cambiamento è qui e adesso, nella vita di ciascuno e della comunità, non delegato a logiche bizantine o determinato solo dai poteri forti. Non voglio fare del trionfalismo, voglio solo mettere in luce l’aspetto essenziale di protagonismo e di espressione libera della soggettività di ciascuno che i partiti hanno ormai dimenticato e infatti ci ritroviamo con i cadaveri dei partiti e l’agonia della rappresentanza.  Un ottimismo troppo facilone però si scontrerebbe con le contraddizioni del Movimento: a fronte di pratiche “dal basso”, rese vive dalla partecipazione di ciascuno, la voce mediatica è rappresentata dalle urla e invettive di Grillo che punta il dito contro la corruzione dei politici, l’ipocrisia, la falsità e l’arrivismo, tutte cose vere, certo, ma inserite in un orizzonte di antipolitica capace di catalizzare la rabbia diffusa, l’essere-contro, il cinismo e il nichilismo. I politici devono essere “spazzati via”, ciascuno sa e può decidere e qui entra in gioco l’aspetto della Rete e della tecnologia proposto dalla coppia Grillo/Casaleggio come forma di democrazia autentica. Clikko dunque sono, esisto attraverso il “mi piace” o il tweet dell’hashtag del momento. C’è una fiction tv inglese, trasmessa poco tempo fa da sky (si trova in rete) che, con la potenza dell’immaginario propria del cinema riesce a farci vedere cose nuove. La serie si chiama Black mirror e la puntata di cui vi voglio brevemente parlare è Vote Waldo. Waldo è un orsetto blu, animato da un attore comico che gli dà voce ed espressioni attraverso joystick e guanti sensibili. Lui è sullo schermo, dietro – invisibile – c’è l’attore che lo anima. Gli interlocutori sono politici che irride, investe di una volgarità grossolana, denuncia essere più irreali di lui nella loro evanescenza. Ha talmente tanto successo che i produttori decidono di candidarlo alle elezioni, che naturalmente vanno bene per lui. Ha successo perché dice cose vere, e ciascuno di noi ha bisogno di verità, fa crollare l’impalcatura di ideologie vuote che sostengono il nulla dei partiti, fa percepire che ciascuno in prima persona possa esprimersi attraverso la Rete. E però. Diversamente dal film che citavo prima, l’orizzonte è un vuoto in cui sfogare la rabbia, non ci sono passioni che accendono il desiderio di cercare nuove risposte dentro di sé e insieme agli altri, la candidata laburista sconfitta infatti gli dice: “Io almeno qualcosa di buono volevo farlo, tu sai solo dire vaffanculo”. L’attore che anima Waldo a questo punto va in crisi e se ne va, ma ne arriva subito un altro, il ghigno e le invettive dell’orsetto possono continuare per sempre, dietro lo schermo ci sarà sempre qualcuno, purtroppo qui non è più la soggettività in gioco. L’attore pentito non fa una bella fine, un po’ come gli espulsi dal M5S presi dalla crisi di coscienza, di prospettive e di democrazia e poi espulsi dal movimento stesso che avevano contribuito a creare.

Quindi il protagonismo e la libera espressione della soggettività sono alcuni ingredienti importantissimi ma non basta. L’essenziale è la sfida politica.

Nella della politica delle donne l’orizzonte politico è quello della libertà femminile, che è libertà di donne e uomini. Protagonismo e soggettività sono ingredienti, il lievito è la pratica di relazione e del conflitto non distruttivo che, tornando alla favola, vediamo all’opera nell’agire politico della ragazza: lei infatti ci mostra che la libertà è un’esperienza che si fa con altre e altri, in comune. Esserci in prima persona significa entrare in contatto profondo con il proprio desiderio, che può essere messo a fuoco solo nella relazione. Il cavaliere comprenderà la verità della ragazza, essendo disposto a mettersi in gioco nel dialogo con lei e si aprirà a un cambiamento ampio, il mondo in cui lavorare, giocare e divertirsi insieme. La giovane donna ha fatto esistere qualcosa che non c’era prima nell’immaginario del cavaliere, la possibilità di cambiamento in prima persona, nella relazione con altre e altri. L’impensato, qualcosa che prima non era mai passato per la del cavaliere, si affaccia e rivolge completamente la sua vita.

Incontrare la politica, il femminismo, è stato per me esattamente questo. Posso dirlo anche in altri termini: è il fatto di non essere pigra, non accontentarmi delle interpretazioni già date al mio essere donna, al contrario, modificare il mio rapporto soggettivo con la realtà. Si tratta di una vera e propria lotta per la trasformazione personale, che porta cambiamenti nel proprio ambiente e, di conseguenza, nel mondo. La politica che ho incontrato e che ha acceso la mia passione è la politica del simbolico, che ha il suo centro nel saper dire quello che mi capita con la fiducia che non capita solo a me e poter partire da lì per creare libertà, quello che in termini più filosofici si può esprimere come il nesso tra esperienza e dicibilità dell’esperienza stessa, quel legame fruttuoso che dà valore pubblico ai vissuti per arrivare all’indipendenza simbolica dal potere dominante. Simbolico significa qui una cosa grande, la possibilità di fare politica al di fuori della conquista del potere o dell’antagonismo al potere, al di fuori della pura rivendicazione di diritti.

Non sto dicendo che non si debba protestare quando c’è da protestare o rivendicare quando c’è da rivendicare. Sto dicendo che c’è un altro piano, che non si può mettere a paragone con la rivendicazione perché è altro, è l’impensato che arriva e sconvolge.

L’ordine simbolico è l’insieme dei significati e dei principi accettati a livello di immaginario collettivo in una certa epoca. Per esempio l’ordine simbolico patriarcale assume il sesso maschile come misura per l’intero genere umano e si pone come modello per entrambi i sessi. Però non tutto è immutabile: immaginatevi la prima volta che una donna non ci sta e dice no al posto che l’uomo (la società, la cultura, la Legge) ha pensato per lei.

Faccio alcuni esempi, il primo un fatto epocale successo in Italia: nel 1965 una giovane donna siciliana, Franca Viola, rifiuta il matrimonio riparatore al suo rapitore. Siamo appena prima della presa di coscienza estesa del femminismo. Solo nel 1981 sarà fatta una legge che abolisce la possibilità di cancellare una violenza sessuale tramite un successivo matrimonio (la stessa che abroga le disposizioni sul delitto d’onore[1]). In un’intervista a Franca Viola quarant’anni dopo lei dice: “Ero contenta quando sentivo di altre ragazze che si erano salvate facendo la mia stessa scelta, mi faceva piacere sapere che, anche se indirettamente, ero stata io ad aiutarle. Quella legge era evidentemente ingiusta e andava cambiata[2], c’è sempre una prima volta, e io fui quella che diede inizio al cambiamento”. Questo è un fatto eclatante, però immaginiamoci anche le prime donne che hanno pensato di non voler restare subordinate al marito anche se erano sposate, alle prime che hanno desiderato di poter scegliere quando e con chi avere dei bambini. Sono questioni che riguardano primariamente la libertà femminile, non le leggi sul divorzio e l’aborto (che va bene che ci siano, s’intende, non le sto mettendo in discussione).

Arriviamo vicino ai giorni nostri. Pensiamo alla legge che prevede permessi per la cura dei figli anche per il padre. Gli uomini, per lo più, non colgono questa occasione. Non c’è da stupirsene: solo quando riusciranno a fare una mossa interiore di libertà, capiranno di sé ciò che la legge non potrà mai dare e dire. Ancora una volta ripeto che il problema sociale esiste, ma riguarda in grande misura la sfera interiore, il senso che ognuno dà al fatto di essere padre o madre, uomo o donna: se un uomo ha sempre avuto sotto gli occhi il modello della cura come ambito proprio delle donne, non riesce a immaginare qualcosa di diverso, e solo una messa in discussione profonda, in relazione con altri uomini, può permettere un cambio di rotta. Le nostre schiavitù sono vincoli che abitano la nostra mente. È da lì che devono cominciare a sparire. La sfida dell’azione politica che fa leva sulla libertà è proprio di immaginare qualcosa che non c’è, creare ciò di cui hai bisogno. La vera prima mossa è lo scatto interiore di consapevolezza, la messa a fuoco, insieme ad altre, dei bisogni reali. E questo è il lavoro politico sul simbolico, ovvero lottare per far accadere qualcosa di diverso da quello che è prevedibile e scontato, da quello che sembra ovvio e inevitabile.

E tutto questo non è altro che la passione e la lotta comune per la libertà, l’unica vera ricchezza che abbiamo nella vita (assieme e accanto all’amore).

Vien da dire “sì, belle parole, ma con la crisi della politica istituzionale e la crisi economica fatichiamo a trovare un barlume di desiderio come ne parli tu…”. Rispondo e concludo citando un breve pezzo delle lettere di  Etty Hillesum (Etty Hillesum, Lettere, Adelphi, pag. 45):

“Io credo che … Se noi salveremo i nostri corpi e basta dai campi di prigionia, dovunque essi siano, sarà troppo poco. Non si tratta infatti di conservare questa vita a ogni costo, ma di come la si conserva. A volte penso che ogni situazione, buona o cattiva, possa arricchire l’uomo di nuove prospettive. E se noi abbandoniamo al loro destino i duri fatti che dobbiamo irrevocabilmente affrontare – se non li ospitiamo e nelle nostre teste e nei nostri cuori, per farli decantare e divenire fattori di crescita e di comprensione -, allora non siamo una generazione vitale. Certo che non è così semplice […]; ma se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione -, allora non basterà. Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze dovranno portar chiarezza oltre i recinti di filo spinato, e congiungersi con quelle che là fuori ci si deve ora conquistare con altrettanta pena, e in circostanze che diventano quasi altrettanto difficili. E forse allora, sulla base di una comune e onesta ricerca di chiarezza su questi oscuri avvenimenti, la vita sbandata potrà di nuovo fare un cauto passo avanti”.



[1] legge n. 442 del 5 agosto 1981

[2] L’art. 587 del codice penale consentiva che fosse ridotta la pena per chi uccidesse la moglie, la figlia o la sorella per difendere “l’onor suo o della famiglia”.

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