1 Febbraio 2023

La questione maschile

di Laura Colombo


Lezione tenuta al Grande seminario di Diotima “Corpi esposti”, in dialogo con Marco Deriu, Verona 21 ottobre 2022


Quello che stiamo mettendo in discussione non sono semplici connessioni teoriche, ma certi modi di vivere e relazionarci come uomini. Sono la nostra esperienza e le nostre relazioni, come uomini, a dover essere cambiate. È importante comprendere come, al livello dell’esperienza personale e dell’impegno nelle relazioni, l’invisibilità degli uomini a se stessi, risultante dal potere che detengono e dalla propensione a spersonalizzare e a universalizzare la propria esperienza, li porti costantemente alla tentazione di parlare per gli altri, presentandosi nel contempo come la voce neutrale della ragione


Inizio questa mia relazione citando le parole di Victor J. Seidler che, in un saggio uscito in Italia nel 1992 dal titolo Riscoprire la mascolinità[1], con incredibile precisione e lucidità evidenzia il cuore della cosiddetta “questione maschile”. Secondo Seidler, la cultura occidentale ha creato le condizioni di oppressione del genere femminile e contemporaneamente l’invisibilità a se stesso di quello maschile. Le radici sono da ricercare nel primato dato al pensiero a partire da Cartesio, ovvero nella riduzione dell’essere umano al solo pensiero che espunge i sensi, i sentimenti, le emozioni, gli istinti, in altri termini il corpo. Le creature più prossime alla natura sono inferiori perché non raggiungono la piena potenza della ragione. Le donne, legate alla maternità, sono inferiori e seconde per destino al maschile, d’altra parte la donna deriva da una costola di Adamo. Il punto sottolineato da Seidler nel suo libro è che il soggetto è solo maschile. Per spezzare la monolitica unità del soggetto bisognerà attendere il pensiero di Luce Irigaray.


Tuttavia, Seidler, partendo da sé, sottolinea il peso che la cultura basata sull’universalità dell’uno pone in capo agli uomini: “La nostra vita diventa una serie di decisioni e di progetti distinti. In questo modo ci sentiamo a posto con noi stessi, incapaci di dare significato e importanza ai nostri rapporti, alle emozioni e ai desideri. Ci abituiamo a tal punto a non dare credito ai nostri sentimenti, ai desideri per fare la cosa «giusta», che siamo a malapena consci di quanto tutto ciò ci estranei da noi stessi”. È la performance che conta: la conquista di donne, potere, soldi, la capacità di risolvere problemi e di raggiungere obiettivi. Con un salto di vent’anni, questa consapevolezza si è allargata e ne possiamo leggere anche su riviste e quotidiani. Per esempio, Manolo Farci, commentando il fatto di cronaca dei fratelli Bianchi, scrive su Doppiozero che la mascolinità è vista “come un progetto virile ed eroico di affermazione nello spazio pubblico. Non importa che questo spazio pubblico sia il territorio del proprio quartiere, il consiglio di amministrazione di una multinazionale, lo scranno della politica, o una cattedra universitaria: quello che è comune è che l’arena pubblica è il posto che i maschi devono colonizzare, occupare, conquistare e controllare. È il luogo dove gli uomini arrivano a essere uomini[2].


Via Dogana è la rivista della Libreria delle donne di Milano che dal 1991 al 2014 è stata pubblicata in cartaceo e ora è solo online, ospitata sul sito della Libreria delle donne. È un laboratorio di pensiero politico delle donne, promuove un lavoro relazionale e collettivo di ricerca per captare i cambiamenti della realtà e trovare le parole per raccontarli, per non far cadere nell’oblio quello che capita di significativo e ancora non ha parole o è interpretato malamente. Ho in mente una cosa che mi è capitata recentemente. Ero alla presentazione di un libro appena uscito, Ho scritto questo libro invece di divorziare, e l’autrice interpretava la presa di coscienza dei limiti della sua emancipazione come conquista della parità, invece che come una ricerca e una pratica della possibilità di un’esistenza libera, cosa che di fatto è il suo percorso raccontato nel libro. Il femminismo stesso, che ha rivoluzionato il rapporto tra i sessi, è spesso interpretato nel senso di una raggiunta parità delle donne con gli uomini, rendendo questa mediazione, la parità, a facile portata di tutte e tutti. Cito Via Dogana perché il numero 21/22 del settembre 1995 si intitolava proprio “La questione maschile” e preparando questo incontro mi sono stupita di quanto fossero lungimiranti e in anticipo sui tempi le autrici del numero: come si nomina la realtà è essenziale, ne va del senso del nostro stare al mondo, per questo le parole sono importanti. In quegli anni uscì anche un numero intitolato “La fine del patriarcato”, era il numero successivo alla questione maschile, sono temi che ora vediamo legati, ma allora solo la fine del patriarcato venne molto discussa, mentre la questione maschile è rimasta in sospeso, non è stata assunta veramente dagli uomini, quindi rimane in qualche modo una sorta di novità ogni volta che viene nominata. Una decina di anni dopo i tempi erano più maturi, il numero 79 di Via Dogana, intitolato “Parla con lui” (dicembre 2006), è interamente dedicato alla parola di uomini che riflettono a partire dalla loro parzialità e dalle loro relazioni con le donne. Un altro numero di Via Dogana del 2006 dal titolo “Appuntamenti” (n. 78, settembre 2006) ospita un articolo di Marco Deriu che scriveva, a commento di un ennesimo efferato omicidio: “Si potrebbe dire che molti uomini preferiscono cancellare l’alterità piuttosto che riconoscere e accettare così la propria parzialità” e continua “Non si tratta di prendere le distanze da una violenza che sta fuori di noi […], ma di fare i conti con una possibilità che è iscritta nella cultura comune”. È stato un anno in cui, possiamo dire, c’è stato un passaggio simbolico importante, legato alla presa di posizione pubblica di qualche migliaio di uomini, a partire dall’appello del gruppo Maschile Plurale “La violenza contro le donne ci riguarda”, una risposta maschile pubblica, con una risonanza a livello nazionale sulla stampa e altri mass media, che apriva a una relazione politica differente tra uomini e donne. C’è stato un fiorire di iniziative politiche legate a questo accadimento, con gruppi in tutta Italia che facevano ricerca, cui anche io e Marco Deriu abbiamo attivamente partecipato.


In questi gruppi c’era in gioco il desiderio di confronto e scambio, e la voglia di creare uno spazio praticabile per la relazione e il conflitto: niente a che vedere con la pretesa che gli uomini si assumessero colpe o chiedessero perdono “in quanto uomini”, ma con la precisa richiesta da parte delle donne che gli uomini facessero una mossa a partire da una presa di coscienza della propria parzialità, dalla prospettiva di una soggettività maschile che ha preso atto che c’è una sessualità, un simbolico, un modo di relazionarsi, un modo di lavorare, un modo di pensare differente. Per parte nostra, “in quanto donne”, la sfida era di assumerci la relazione politica di differenza con gli uomini, lasciando da parte la tentazione di posizionarci come le discriminate (e quindi abbandonando qualsiasi residuo di vittimismo) o di stare nel separatismo, nel tra donne, in una società parallela dove c’è possibilità di vivere con agio.


Essere qui oggi, seduta a fianco di Marco Deriu, parlando della cosiddetta “questione maschile”, significa mettere in scena precisamente questo spazio simbolico/relazionale.


Qualche mese fa è stato riedito il libro di Lia Cigarini La politica del desiderio, ampliato da un’intervista fatta da Riccardo Fanciullacci a Cigarini. Ci aiuta a capire di cosa stiamo parlando quando nominiamo la questione maschile: “c’è una resistenza speciale degli uomini a interrogare la loro differenza, ad accettare la loro parzialità. È la questione maschile che converrebbe a loro, ma non solo a loro, mettere all’ordine del giorno”. Si tratta dell’identificazione di sé con un punto di vista universale, che comprende in sé tutto e tutti, e rende ciechi e sordi verso la donna che è lì accanto, la compagna di vita, di scuola, di lavoro, di riunione politica. Lia Cigarini ha nominato la questione maschile proprio come mera questione, non perché non sappia o non veda o non conosca uomini che agiscono in modo differente, ma perché non c’è una presa di coscienza degli uomini “in quanto uomini” in rapporto alle donne, nella società non è senso comune che ci sia una presa di coscienza degli uomini, della loro parzialità.


Oggi possiamo aggiungere altri elementi, dettati da una realtà che negli ultimi due anni ci ha messo alla prova, perché ha svelato in modo chiaro dinamiche che prima erano rese opache dall’accelerazione della curva emancipatoria femminile. Nei primi giorni duri del lockdown del 2020 Hellen Lewis, giornalista di The Atlantic, scrive: “Uno degli effetti più sorprendenti del coronavirus sarà quello di rimandare molte coppie negli anni Cinquanta. In tutto il mondo, l’indipendenza delle donne sarà la vittima silenziosa della pandemia” (l’articolo si intitola significativamente “The Coronavirus Is a Disaster for Feminism”). È incredibile come il cinema capti e interpreti i segnali che arrivano dalla realtà e ce li restituisca potenti attraverso le immagini. È il caso di un recente film, Don’t warry darling della regista Olivia Wilde, che propone la storia patinata e surreale di una giovane coppia nell’America degli anni Cinquanta, per raccontare in realtà l’incapacità, da parte di un uomo, di cogliere e accettare la libertà femminile (un nome questo che sta per tante cose: l’indipendenza, la scelta, il desiderio, i talenti coltivati, le passioni da seguire…) e la violenza che lui usa per rinchiudere la donna (e se stesso) in uno stereotipo ormai consunto. Questo film è lo specchio di una maschilità deteriorata, unita all’incapacità dell’uomo di assumere questa crisi, per rifugiarsi in un altrove mortifero. È la rappresentazione su grande schermo della questione maschile.


Ho fino ad ora dipinto una situazione che, devo confessarlo, mi fa provare rabbia e frustrazione, anche per il mondo che stiamo consegnando alle ragazze che crescono oggi. È come se vivessi un’intima contraddizione: so, a partire dalla mia esperienza e quella delle donne che mi sono vicine, che il rapporto tra i sessi è profondamente cambiato, so che molti uomini abbracciano un modo di stare al mondo lontano dal patriarcato, e contemporaneamente vedo nella società un maschile ancorato a una posizione egocentrica, quella che, per esempio, chiede disperatamente conferme femminili fino alle molestie e alla morte. La reazione a questa contraddizione è la pretesa che vi sia una presa di coscienza maschile iscritta nel sociale, non solo un gesto individuale o una mossa che resti confinata in piccoli gruppi. Pretesa che può suscitare reazioni anche molto feroci o, al contrario, un’interlocuzione dialogante, come il recente intervento sul sito della Libreria delle donne di Umberto Varischio[3], che da un lato sottolinea come le prese di posizione pubbliche e collettive maschili non bastano, non sono un dispositivo che genera di per sé consapevolezza, dall’altro opera una distinzione anagrafica: gli uomini nati e cresciuti nel patriarcato possono consapevolmente riconoscere i condizionamenti e cercare di controllarli, i giovani uomini ne sono già affrancati, così il lavoro sulla maschilità e sul rapporto con le donne può partire da altri presupposti.


Ecco che allora scelgo di volgere lo sguardo verso quei cambiamenti resi possibili dal crollo del sistema simbolico patriarcale, e vedo nella paternità il cambiamento più radicale e duraturo. Nel già citato numero di Via Dogana “Parla con lui”, nell’articolo-intervista di una donna al suo compagno lui afferma: “al di fuori dell’ambito sessuale, è proprio la paternità l’unica autentica espressione di virilità dopo la fine del patriarcato”. Lo posso vedere nei gesti di cura di mio fratello verso il figlio nato da poco e verso la madre della creatura. Lui è poco più che trentenne, ed è molto impegnato nell’accudimento, lo desidera ed è felice di farlo, prende il tempo che serve anche dal lavoro (aiutato in questo da una politica aziendale che mette in primo piano le cosiddette diversity e favorisce il congedo parentale paterno – la differenza maschile è riconosciuta nella paternità). Sono cose che nostro padre fatica a comprendere, afferma che è “troppo”, un’eccedenza per lui, che si sarebbe vergognato a spingere una carrozzina, gesto che minava la sua virilità agli occhi della comunità dei maschi. Se parto dalla mia esperienza, posso dire che dare spazio al padre di mia figlia è stata una conquista di libertà per entrambi perché lui, forte della fiducia che gli davo, ha compreso che era in grado di compiere i gesti di cura che desiderava e di cui era terrorizzato.


La paternità, quindi, è uno spazio relazionale privilegiato, in cui accade un doppio movimento: la donna, che è madre, riconoscendo il padre lascia spazio a lui nel rapporto con la creatura, e lui, come dice Luisa Muraro, riconosce l’autorità femminile e sente che “la differenza femminile lo aiuta a ritrovarsi, a essere se stesso”[4]. Far sì che la differenza femminile diventi una mediazione necessaria per una maschilità diversa mi sembra moneta corrente nella genitorialità. Che possa diventare realtà anche al di là dell’ambito familiare, amoroso, amicale, questa mi pare la sfida del nostro tempo.


(www.libreriadelledonne.it, 1 febbraio 2023)


[1] Victor J. Seidler, Riscoprire la mascolinità. Sessualità ragione linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1992

[2] https://www.doppiozero.com/i-maschi-di-colleferro-e-noi

[3] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/contributi/la-questione-maschile-vista-da-un-uomo/

[4] https://www.libreriadelledonne.it/puntodivista/il-rapporto-con-la-madre-gli-uomini-la-guerra-lautorita-femminile/

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