di Alessandra Pigliaru
Bachmann e Kafka sono solo due dei nomi che hanno segnato l’esperienza di Anita Raja come traduttrice. Quando però dal 1984 comincia a tradurre la maggior parte delle opere di Christa Wolf, prende avvio qualcosa di diverso e più profondo. Una scommessa intensa di restituzione, cura e ascolto del linguaggio complesso e ineguagliabile di una delle voci più alte e significative del Novecento europeo.
Tradurre è un rapporto tra due lingue che solo in seconda istanza – e non necessariamente — diventa una relazione di scambio tra due persone. Tra te e Christa Wolf sono capitate entrambe le cose. Che cosa ha significato esserti misurata con lei?
Tradurre, è stabilire una relazione che parte da un testo scritto e produce un altro testo scritto. È un lavoro che mi piace molto perché permette di tracciare linee di collegamento tra individualità, lingue e culture distanti. In genere la traduzione è il risultato dell’incontro di due sensibilità, in cui una si mette al servizio dell’altra subendone l’autorità, la fascinazione, ma sperimentando anche un potenziamento di sé. Questo è accaduto con Christa Wolf al massimo grado. Alla disparità sempre un po’ angosciosa che caratterizza l’atto di tradurre – la lingua del traduttore è al servizio di quella dell’autore e si sente quasi sempre insufficiente — si è affiancato un rapporto fecondo, in cui sono stati messi in gioco sentimenti importanti: riconoscimento, riconoscenza, ammirazione, gratitudine. Il legame che ho stabilito con Wolf è per me un’esperienza unica e irripetibile.
Innanzitutto c’era l’ammirazione per la potenza della scrittura, per la sua capacità di utilizzare il tedesco in una narrazione moderna e avvincente mescolando alto e basso, stile elevato e lingua del quotidiano. A questo s’è aggiunta ovviamente la curiosità per il contesto in cui nascevano le sue opere: la Rdt, l’ambiente intellettuale dentro cui si muoveva, la sua condizione di autrice sempre in precario equilibrio tra dissenso e conformità.…
Ho conosciuto Christa Wolf nel 1984, conoscenza che negli anni si è trasformata in amicizia. Il puro e semplice lavoro sulla sua parola scritta si è arricchito, è stato come passare dai libri al corpo, alla voce, allo spazio domestico, allo spazio pubblico. Ho avuto la possibilità di entrare nel suo laboratorio, avvicinarmi al suo ambiente, ai suoi affetti, ai luoghi del suo quotidiano, all’esperienza che lei volgeva in letteratura. Ho potuto collocarla nella sua casa di Berlino e in quella del Meclemburgo, sfondo di tanti suoi libri, ho conosciuto insomma la sua ‘normalità’. Tutti i suoi libri nascono dall’interno di questa normalità. La sua scelta di raccontare il versante quotidiano della grande storia è stata anche la negazione dello stereotipo della genialità. Per me questo è stato molto istruttivo.
Il primo libro che ha tradotto è stato Kassandra (1983 – Cassandra, 1984) che, insieme a VoraussetzungeneinerErzählung: Kassandra (1983 — PremesseaCassandra, 1983) apre alla figura della sacerdotessa di Apollo. Ci è prossima come donna che racconta la propria materialità quotidiana insieme allo statuto del «vedere» legato alla conoscenza di sé. Oltre all’importanza della riscrittura c’è un punto politico che corrisponde alla differenza femminile, cioè all’entrata in scena di una soggettività lontana dall’eroina socialista da letteratura edificante. Christa T., Cassandra, Medea ma anche Karoline von Günderrode e Bettina von Arnim, mostrano infatti la propria parzialità e anomalia e ne fanno una forza. «Esse» hai scritto «possono imparare a sottrarre la parola alle ferree necessità della storia». In che modo?
Le figure femminili che ha citato sono accomunate da un percorso conoscitivo che ho chiamato «l’apprendistato al no», un percorso di conquista di identità che — in misura diversa — passa dalla subalternità al potere all’espressione di una voce autonoma manifestandosi prima come sintomo di malattia e poi come scoperta di una propria, indipendente capacità di vedere. Un percorso di libertà segnato dalla volontà di dire ‘io’, di definirsi come soggetto in opposizione a tutti i possibili ‘noi’ e a dispetto delle appartenenze di sangue, di clan, di partito.
La significazione della memoria è stata per Christa Wolf un concreto e laborioso corpo a corpo con la storia. A questo proposito, in “Rede, daß ich dich sehe” (2012 — “Parla, così ti vediamo”) da lei appena tradotto, si legge il testo di un discorso inedito tenuto nel 2007 a Berlino intorno al ricordo e al «punto cieco», espressione che Wolf utilizza non sempre con un’accezione negativa e che comparirà anche in “Stadt der Engel oder The Overcoat of Dr Freud” (2010 – “La città degli angeli”, 2011). In un passaggio del discorso berlinese sostiene che «dai nostri punti ciechi discendono direttamente i punti dolenti del nostro pianeta»…
Il punto cieco, cioè il punto della retina insensibile alla luce nell’area di ingresso del nervo ottico, diventa per Wolf metaforicamente un meccanismo di difesa di fronte a verità o intuizioni che, in dati momenti, sarebbero intollerabili.
In questa accezione, i punti ciechi sono i simboli del rimosso della nostra civiltà, ciò che ‘non vogliamo vedere’, che viene continuamente negato, cancellato, tralasciato, sottaciuto. Secondo Wolf ognuno ha i suoi punti ciechi, ma quelli che si manifestano a livello sociale sono potenzialmente distruttivi. Riprendendo i temi affrontati nelle Premesse a Cassandra, Wolf per esempio individua nella negazione e rimozione della differenza femminile, il punto cieco all’origine della nostra cultura. Ma usa questa espressione anche come chiave di lettura del recente passato tedesco. Le due Germanie avrebbero usato la loro divisione «anche per sottrarsi al confronto col proprio passato, per evitare di elaborare la propria colpa e addebitarla agli altri, al prezzo che per ciascuna delle due Germanie l’altra parte diventò il punto cieco». E a proposito delle persecuzioni antisemite, arriva a chiedersi se gli ebrei tedeschi non avessero sviluppato un ‘punto cieco’ rispetto alle potenzialità omicide insite nella mentalità tedesca.
In “Kindheitsmuster” (1976 — “Trama d’infanzia”, 1992) si configurano e intersecano con magistrale tecnica piani temporali e linguaggi diversi. C’è la storia immedicabile degli anni del Terzo Reich, il racconto di una Germania dilaniata e riconosciuta attraverso la fanciullezza di Nelly Jordan dal 1932 al 1947; ma c’è anche la stessa vicenda biografica di Christa Wolf, le contraddizioni della Rdt e il suo ritorno nei luoghi in cui ha vissuto per scrutarne dicibilità e omissioni. È in via di pubblicazione la sua traduzione di un ulteriore racconto di Wolf legato proprio a “Trama d’infanzia”. Si intitolerà “Epitaffio per i vivi. La fuga”. Può anticipare qualcosa?
Si tratta di un breve racconto inedito del 1971, che fa parte del corpus dell’opera di Wolf custodita nell’Archivio dell’Accademia delle arti di Berlino e che contiene gran parte dei temi e dei motivi che l’autrice svilupperà in Tramad’infanzia.
Epitaffio per i vivi racconta la fuga di una famiglia tedesca nel gennaio 1945 di fronte all’avanzata dell’Armata Rossa, mentre è prossima la capitolazione della Germania nazista. Ha al centro una magnifica figura di madre, e narra l’infanzia e l’adolescenza fuori dagli stereotipi consolatori o zuccherosi. È un racconto letterariamente perfetto, scritto con la libertà e l’audacia dei testi nati di getto e rimasti allo stadio della prima stesura. A differenza dei testi successivi sull’argomento — più sorvegliati e meditati – ha la tensione della scrittura che si affaccia per la prima volta su un’esperienza difficile da raccontare.
Leggere e rileggere i testi di Christa Wolf cosa può offrire alla lettura del presente?
Sicuramente la costante ricerca di senso, l’ostinata fedeltà a se stessi, alla scelta di restare nel luogo dove ci è dato vivere. E un’idea di futuro che comincia sempre da oggi, qui, senza rimandare a un poi, a un altrove. E ancora la certezza che ci sono valori non negoziabili: l’idea di una società se non egualitaria almeno attenta anche agli ultimi, la diffidenza verso i feticci della società capitalistica, l’importanza dell’utopia. Senza contare la rivendicazione della ‘buona politica’, momento alto dell’esperienza.
Infine c’è in Wolf un’idea di letteratura come opera di verità, che testimoni contro l’esistente, inventi una vita diversa, ne trasmetta la necessità, prefiguri anche stilisticamente il nuovo. E’ importante, a questo proposito, la sua ricerca tecnica. C’è nei suoi testi un modello di scrittura che mostra definitivamente l’ impossibilità di narrare in modo lineare. La difficoltà di dire ‘io’ la spinge a sperimentare una compresenza di punti di vista, quella che lei ha definito una «grammatica delle relazioni multiple e simultanee».
(il manifesto, 25 marzo 2015)