11 Gennaio 2016
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La scrittura è un modo di esistere. Intervista ad Annie Ernaux

a cura di Giorgio Biferali

 

Nelle prime pagine de Il posto, lei parla di «scrittura piatta» per raccontare il suo rapporto con le parole, con il tempo che passa e con i ricordi che aiutano a metterle insieme in una nuova forma, particolare e universale, che non si approfitta dei sentimenti e che non cerca alcuna complicità con il lettore. Cosa prova ogni volta che si trova davanti a un foglio bianco? Cosa rappresenta per lei la scrittura? E ai lettori, ogni tanto ci pensa?

Non mi metto mai davanti a un foglio bianco senza avere a lungo riflettuto in precedenza, a volte anni, su un progetto di scrittura. C’è una fase preliminare di ricognizione, in cui mi concentro sulla struttura del testo, sulla sua importanza, e che si potrebbe definire una specie di «diario di scrittura». La sensazione, quando entro nella vera e propria fase di stesura, è quella di un lavoro che nessuno potrebbe fare all’infuori di me e nel quale mi devo impegnare, costi quel che costi.

La scrittura è innanzitutto per me un modo di esistere – quando non scrivo mi sento inutile, vuota – e anche di intervenire nel mondo portando alla luce ciò che mi colpisce ma che avrebbe potuto colpire chiunque. Sempre più, è anche una lotta contro l’oblio, quello della Storia, della nostra vita collettiva, in un’epoca che mi appare come quella della fugacità e delle emozioni senza memoria.

Non penso mai a un lettore in particolare mentre scrivo, mi immergo completamente in una dimensione dove l’unica cosa che conta è esprimere nella maniera più giusta situazioni ed emozioni. Allo stesso tempo, scrivo pensando che nella società in cui vivo, insieme alla quale costituisco un’epoca, questa scrittura troverà qualcuno che sarà colpito dai miei libri. Ma questo ipotetico lettore non influisce in nessun modo sulla mia maniera di concepirli. Significherebbe piegarsi al gusto dominante, e se l’avessi fatto di sicuro non avrei mai scritto Il posto o Gli anni. 

«Forse scrivo perché non avevamo più niente da dirci», scrive ne Il posto, parlando di suo padre. Secondo lei, che rapporto c’è tra la letteratura e la vita? Si può dire che tutto quello che uno scrive è autobiografico?

C’è sempre un nesso tra la letteratura e la vita, azzardo anche tra la filosofia e la vita, alla maniera di Paul Valéry che sosteneva che ogni teoria filosofica fosse un frammento autobiografico. Ma nella letteratura ci sono più gradi di coinvolgimento del sé, lo dimostra la diversità tra L’Inferno di Dante e le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau. L’autobiografia ha una specificità che le è propria, ossia la ricerca di una verità, e il soggetto di questa ricerca è la vita di chi scrive.

Gli anni si apre con questa frase: «Tutte le immagini scompariranno». Ma lei non fa che smentirla, scrivendo questo romanzo e rievocando quelle immagini che sembravano destinate a scomparire per sempre. Nel finale, infatti, scrive: «Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più». E il presente diventa il luogo in cui mettere al sicuro il passato, mentre ci prepariamo al tempo che verrà. Secondo lei la letteratura è anche questo, un modo per riscrivere il tempo e le sue convenzioni, per far convivere passato, presente e futuro?

Quando ho iniziato a scrivere Gli anni, avevo il desiderio profondo di incidere una vita all’interno di una generazione, di restituire la dimensione storica del singolo essere umano, e, facendolo, di sfuggire alla visione autobiografica tradizionale dell’individuo, collocato al centro del racconto con la storia sociale e culturale come sfondo. Volevo mostrare in un unico moto narrativo i cambiamenti di una società e di un essere umano, nel caso specifico di una donna.

Molto velocemente, si è rivelata una scrittura mobile, quella di un passato in divenire, rivolto a un avvenire continuamente sopraffatto, con degli scatti sul presente resi attraverso la descrizione di alcune foto personali, descritte e commentate ma senza mai usare la parola «io».

Devo confessare che più andavo avanti, più mi sembrava folle questo mescolare la storia collettiva con la storia individuale in una narrazione senza personaggi, dove le canzoni e le pubblicità affiancano le azioni. Ma alla fine ho avuto la sensazione di un «recupero» del tempo attraversato. Trovare la chiave per raccontare il tempo è sicuramente una delle più grandi sfide della letteratura.

Lei, ne Gli anni, come fece Pamuk nel suo Museo dell’innocenza, oscillando tra i grandi fatti del Novecento e alcune immagini particolari, è riuscita a raccontare la Storia attraverso le storie dei singoli individui, anche partendo da ricordi che non le appartenevano direttamente: «Era la memoria degli altri a collocarci nel mondo». Questo, per lei, era il modo migliore per raccontare la nostra storia?

Ci sono certamente altri modi di raccontare la nostra storia. Quando ho iniziato a concepire Gli anni, mi sono interessata al percorso di altri autori, per esempio Elsa Morante ne La Storia e Vasilij Grossman in Vita e Destino, e ogni volta queste letture – mirabili – mi obbligavano a capire come, io, potessi scrivere la storia del mio tempo, della mia generazione, dal mio punto di vista. Che questo punto di vista sia stato accettato, anche incondizionatamente, da molti lettori, dimostra almeno che corrisponde alla sensibilità del XXI secolo…

E lei come si spiega gli attentati del 13 novembre scorso? Si tratta davvero di questioni religiose o c’entrano anche ragioni politiche e socio-economiche?

Il perché di questi attentati? Nella logica dell’ISIS va cercato nel forte interventismo del Presidente Hollande (non dico “della Francia” perché i cittadini non hanno mai avuto modo di dire la loro) in Siria, in Iraq e prima ancora in Mali e nel Sahel. E nel fatto che la Francia (qui invece intendo un’ampia maggioranza della popolazione) afferma una laicità militante.

Qual è stato e qual è il ruolo degli intellettuali francesi, quando la Storia si fa così complessa e così tragica?

Che si trattasse del periodo dell’Occupazione nazista o di quello della Guerra d’Algeria, in Francia ci sono sempre stati degli intellettuali che hanno voluto esprimersi e che sono riusciti a farlo. In tempo di “pace” esistono tuttavia delle forme di censura mediatica… oppure, al contrario, ci sono discorsi che vengono privilegiati rispetto ad altri, cosicché attualmente sono proprio le voci di coloro che gridano contro la supposta perdita dell’identità francese ad avere più visibilità.

Si è detto spesso che certi fatti, così imprevedibili, stravolgono la nostra quotidianità e ci costringono a vivere nella paura. Secondo lei, come dovremmo reagire?

Vivremo come prima. Di fatto ciò che mi colpisce rispetto agli attentati del 1986 e del 1995 compiuti dal Gruppo Islamico Armato algerino in Francia, di ben minore portata, è l’assenza di paura delle persone, la volontà di non cambiare nulla nel proprio modo di vivere.


(www.leparoleelecose.it, 11 gennaio 2016)

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