22 Marzo 2014
Alias

“La signora e i suoi 5 elefanti”

di Maria Grosso

 

Ucraina. Ritorno al passato di Svetlana Geier testimone del secolo passato nel documentario di Vadim Jendreyko. Come dirvi di Sve­tlana Geier? Per certi versi la sua vita è irrac­con­ta­bile. Troppo vasta, inner­vata, com­plessa, cro­ce­via della sto­ria ucraina, russa e tede­sca del ‘900 e insieme dei segreti abis­sali della grande let­te­ra­tura … Come pro­vare a resti­tuire una tale stu­pe­fa­cente archi­tet­tura di destino? Come coglierne le mille avven­tu­rose cor­ri­spon­denze, i dis­sidi lace­ranti, le infi­nite tan­genze e rifrazioni?Per for­tuna c’è chi ha sen­tito il biso­gno di met­tere la pro­pria arte e la pro­pria cura al ser­vi­zio di que­sta sto­ria, per custo­dirne il valore e per dif­fon­derla. Quando Vadim Jen­dreyko, regi­sta svizzero-tedesco, la incon­tra per la prima volta nel 2005, Sve­tlana Geier è una donna che ha già vis­suto tanto e che porta con sé il frutto di 50 anni di lavoro come tra­dut­trice let­te­ra­ria dal russo al tede­sco. Puš­kin, Gogol’, Tol­stoj, Solže­ni­cyn, Bul­ga­kov, tra gli altri, sono stati “ospiti” della sua mente, del suo cuore e dei suoi sensi, fino a quando all’inizio degli anni ‘90 le è stato pro­po­sto di affron­tare gran parte dell’opera di Dostoe­v­skij. Baste­rebbe solo que­sto a ren­derla affa­sci­nan­tis­sima. Ma c’è molto altro.Nata Iva­nova a Kiev nel 1923, figlia unica di geni­tori legati alla cul­tura russa, appena ado­le­scente cono­sce sulla pro­pria pelle gli esiti delle pur­ghe sta­li­niane: nel ‘38 il padre è arre­stato, incar­ce­rato e tor­tu­rato e, seb­bene venga rila­sciato — caso raro — dopo un anno e mezzo, riporta tali ferite fisi­che e morali da non soprav­vi­vere che sei mesi. Un arco di tempo in cui, men­tre la madre lavora per man­te­nerli facendo le puli­zie, è lei a curarlo e a con­di­vi­dere con lui il peso di una memo­ria insostenibile.Dopo la morte del padre, Sve­tlana, che non ha mai smesso di tenere accesa la sua pas­sione per lo stu­dio, è spinta dalla madre a col­ti­vare l’apprendimento delle lin­gue, fran­cese e tede­sco, intra­preso pri­va­ta­mente da bam­bina. Potrà essere que­sta la sua vera “dote” e forse un giorno la sua sal­vezza. Intanto la sto­ria incalza.Il 22 giu­gno ‘41 è il giorno del suo diploma ma è anche quello in cui i nazi­sti inva­dono l’Ucraina, men­tre parte della popo­la­zione, pro­vata dalla care­stia del ‘32-‘33 (da 5 a 11 milioni di morti), e dalle azioni del regime sovie­tico che, volendo annien­tare le cor­renti nazio­na­li­ste, stran­gola gli snodi fer­ro­viari, li acco­glie come libe­ra­tori. Nel frat­tempo un’altra per­dita enorme sta per sca­vare l’anima di Sve­tlana. Tra i 30000 ebrei depor­tati e tru­ci­dati dai nazi­sti nel campo di Babij Jar, c’è la sua amica più cara, Neta Tkatsch.Qual­che tempo dopo, sua madre, pro­strata dalla fame e dalle pri­va­zioni, affitta una stanza a un uffi­ciale tede­sco di nome Kers­sen­brock, men­tre il suo com­pito è quello di mediare lin­gui­sti­ca­mente tra gli occu­panti e le per­sone del luogo, cosa che fini­sce per pro­cu­rarle anche un lavoro come tra­dut­trice presso l’Istituto Geo­lo­gico di Kiev e in seguito presso un uffi­cio a Dortmund.Dopo la scon­fitta di Sta­lin­grado, i nazi­sti si avviano a riti­rarsi dalla città. Gran parte della popo­la­zione è esi­liata, chi rimane è sog­getto alle pur­ghe di Sta­lin. Sve­tlana e la madre sono inter­nate in un campo di lavoro per depor­tati dell’Est a Dort­mund. Qui la ragazza è inter­ro­gata diverse volte dalla Gestapo. In seguito, gra­zie agli inter­venti di Kers­sen­brock e di un fun­zio­na­rio cono­sciuto all’Istituto Geo­lo­gico è rila­sciata e parte per Ber­lino dove, dopo aver affron­tato un test, le viene con­fe­rita (cosa incre­di­bile per una cit­ta­dina sovie­tica), una borsa di stu­dio della Fon­da­zione Hum­boldt, men­tre un fun­zio­na­rio nazi­sta, che pagherà il gesto con l’epurazione, le pro­cura due pas­sa­porti per stra­nieri per recarsi a Fri­burgo con la madre. Lì comin­ciano una nuova vita. Sve­tlana si sposa acqui­sendo il nome Geier, diviene madre di due figli, quindi divor­zia, nel frat­tempo ha imboc­cato un lun­ghis­simoper­corso di inse­gna­mento uni­ver­si­ta­rio, non­ché di fine tra­ghet­ta­trice lin­gui­stica della let­te­ra­tura russa e delle sue infi­nite sot­ti­gliezze eti­che e verbali …Ecco: da que­sta sto­ria amplis­sima, dalla sen­si­bi­lità regi­stica di Vadim Jen­dreyko e da un apporto emo­zio­nante di mate­riali foto­gra­fici e fil­mici di reper­to­rio, nel 2009 ha ori­gine, dopo una intensa gesta­zione, il docu­men­ta­rio Die Frau mit den 5 Ele­fan­ten (The woman with the 5 ele­phants), dove i pachi­dermi del titolo, nell’affettuosa deno­mi­na­zione coniata per loro dalla signora Geier, a sor­presa sono i 5 grandi romanzi di Dostoe­v­skij, la cui tra­du­zione porta a ter­mine nell’arco di 20 anni.Si tratta di un film pro­fon­dis­simo, plu­ri­sen­so­riale, impal­pa­bile e ruvido allo stesso tempo, attra­ver­sato, come le luci di un treno nella notte, da una strut­tura tem­po­rale raf­fi­nata e com­plessa, che pure sca­tu­ri­sce dal natu­rale evol­versi degli eventi: a due mesi dall’inizio delle riprese, un inci­dente grave subito dal figlio di Sve­tlana (che smette di tra­durre per occu­parsi di lui), dischiude uno spi­ra­glio nella memo­ria della donna, gene­rando un flusso di emo­zioni legate al pas­sato, al padre e all’amica tanto amata, fino a un incre­di­bile viag­gio che la riporta, insieme alla nipote, com­plice un invito per tenere delle lezioni, ancora una volta — dopo 64 anni — in Ucraina. Un tra­gitto che la camera segue passo passo, con tutto il suo pre­ci­pi­tato emo­tivo gigan­te­sco, men­tre il pae­sag­gio dal treno si fa sem­pre più bianco e rarefatto.Con una capa­cità mera­vi­gliosa di essere sem­pre vici­nis­simo a lei, ma mai inva­sivo, Jen­dreyko, in causa anche come nar­ra­tore sto­rico fuori campo, coglie dun­que Sve­tlana Geier ora nell’intimità dei suoi riti dome­stici e con­vi­viali (ha tante nipoti), ora intenta al tempio-scrivania dove fio­ri­scono le sue tra­du­zioni: tra i suoi col­la­bo­ra­tori uno è un musicista-lettore, a testi­mo­nianza della dimen­sione pro­fon­da­mente audi­tiva e insieme sen­suale della let­te­ra­tura. E se nell’assoluta con­ti­nuità tra crea­zione manuale (cuci­nare sti­rare rica­mare) e intel­let­tuale, per lei “tra­du­zione” è desi­de­rio, ricerca di qual­cosa che emerge dal tutto e che alle suc­ces­sive rilet­ture con­ti­nua a stil­lare doni, che cosa è l’esistenza? Col suo corpo agile e curvo, lo sguardo liquido incre­di­bil­mente intel­li­gente e arguto, la pelle sot­ti­lis­sima e isto­riata, guar­dando in mac­china, Sve­tlana risponde : “Caro amico, non senti che il rumore della vita altro non è se non un’eco di armo­nie tra­scen­denti? Che niente esi­ste se non un cuore che parla a un altro cuore senza parole?”.

(Alias,22 marzo 2014)

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