3 Dicembre 2012
LA STAMPA

La sporca guerra dei soldi intorno alle Pussy Riot

Mark Franchetti *

Quando, in una dimostrazione di solidarietà, la pop star Madonna si presentò a un concerto con i loro nomi tatuati sulla schiena, le tre ragazze della band d’opposizione tutta femminile Pussy Riot incarcerate per un’esibizione anti-Cremlino in una chiesa, ne furono felicissime. L’appoggio della star coronava una campagna mondiale di indignazione per il duro trattamento che le autorità avevano riservato alle ragazze. Madonna, che in un altro concerto aveva indossato il passamontagna che è il marchio della band russa, le ha aiutate a raggiungere la fama internazionale. Ma la felicità è diventata costernazione adesso che in un’altra esibizione di sostegno alle ragazze – due delle quali nel frattempo sono state condannate a due anni di lavori forzati – Madonna ha cominciato a vendere T-shirt per aiutarle a pagare le spese legali. Le magliette, che vengono vendute a 15 euro ai concerti della rockstar e sul suo sito web, mostrano il logo della band – una donna in mini abito rosso e passamontagna, pugno alzato e chitarra elettrica.

 

La cosa ha fatto arrabbiare le ragazze incarcerate, che sono contrarie a qualunque commercializzazione della loro band e combattono una battaglia sempre più difficile per impedire a una schiera di persone di lucrare sulla loro fama. Questa vendita arriva nel mezzo di un’amara sfilza di sgradevolezze: la pubblicazione di un libro non autorizzato, liti con alcuni sostenitori e una disputa sui diritti e il relativo denaro tra le ragazze e i loro avvocati, ai quali è stato revocato il mandato.

 

Yekaterina Samutsevich, 30 anni, una delle tre che in agosto sono state condannate per teppismo motivato da odio religioso, ha detto di non aver ricevuto nessuna somma raccolta con la vendita delle T-shirt di Madonna e di non conoscere nessun dettaglio dell’accordo.

 

La condanna della Samutsevich è stata sospesa e lei è stata liberata in appello dopo sei mesi di detenzione in attesa di giudizio. Le sue compagne Nadia Tolokonnikova, 23 anni, e Maria Alyokhina, 24, entrambe madri di bambini piccoli, stanno invece scontando due anni in duri campi di lavoro, dove d’inverno la temperatura scende a -30°. Amnesty International le ha definite «prigioniere di coscienza». La scorsa settimana Alyokhina ha chiesto di essere messa in isolamento per «la sua propria incolumità», dopo essere stata maltrattata da alcune compagne di detenzione.

 

«Nessuno ha fatto accordi con me, né con Nadia o con Masha – ha detto la Samutsevich a proposito delle T-shirt -. L’unica cosa che posso dire è che noi mai venderemo magliette con la nostra immagine. Quelle in circolazione non siamo noi a venderle. Sto cercando di scoprire dove vada a finire il ricavato della vendita di Madonna». Le ragazze della band non accusano la star di atti illeciti ma pensano che sia stata raggirata da gente che millanta un’autorizzazione che non ha.

 

Una portavoce di Madonna insiste a dire che la rock star aveva il permesso della band e che il cento per cento del ricavato va come contributo per le spese legali. Il battibecco andrebbe addebitato alla «confusione» tra le cantanti in carcere e l’ex collegio di avvocati.

 

Le ragazze erano state arrestate a marzo dopo un flash-mob nella cattedrale di Cristo Salvatore, la più grande chiesa ortodossa russa, dove il presidente Putin assiste alle cerimonie religiose a Natale e a Pasqua. Ci sono filmati che le mostrano mentre danzano e cantano all’altare mentre personale della chiesa e della sicurezza cerca di fermarle.

 

La «preghiera punk» della band era diretta contro Putin e gli stretti legami politici della Chiesa ortodossa con il Cremlino. «Madre di Dio, vergine, caccia via Putin!», cantavano. Il processo e la condanna delle tre cantanti ha diviso la società russa e attirato la condanna internazionale. Parecchie star musicali, compresi Sting e i Red Hot Chilly Pepper, hanno dato il loro appoggio alle Pussy Riot, che in pochi mesi sono passate dall’oscurità anche in patria al più famoso articolo da esportazione della Russia. La band adesso è così conosciuta all’estero che un personaggio indossava una T-shirt con la scritta «Liberate le Pussy Riot» in un recente episodio di «South Park», una sitcom americana.

 

Le Pussy Riot T-shirt oramai si vendono sulle bancarelle in Russia, Londra e New York. Si trovano anche su molti siti web, alcuni con link di associazioni che sostengono di raccogliere denaro per aiutare la band.

Accuse di cercare di lucrare sulla notorietà della band hanno causato anche una sgradevole lite tra le ragazze in carcere e i loro legali. Mark Feigin, l’avvocato della Tolokonnikova, ha cercato di registrare presso le autorità russe il marchio delle Pussy Riot come proprietà di una società cinematografica posseduta da sua moglie. Fegin ha detto che la mossa era diretta a proteggere il marchio ma la Tolokonnikova, dal carcere dov’è reclusa, ha denunciato la mossa. «Fermate la registrazione del marchio! Fermate questa follia! – ha detto -. Sono profondamente disgustata dalle discussioni finanziarie. Il denaro è polvere. Se qualcuno ne ha bisogno, lo prenda… Io ho bisogno di libertà, ma non per me. Per la Russia».

 

La Samutsevich ha detto alla stampa di essersi sentita offesa quando ha scoperto l’iniziativa di Feigin: «Noi avevamo discusso soltanto della protezione del copyright, non sapevo nulla della registrazione del marchio. Avevo completa fiducia in lui… Adesso capisco di aver fatto un errore».

 

Fegin, altri due avvocati e Piotyr Verzilov, il marito della Tolokonnikova, sono stati accusati dalla stampa russa di aver chiesto decine di migliaia di euro per collaborare a un documentario della Bbc sulle Pussy Riot che verrà proiettato al prestigioso Sundance Film Festival.

 

Dal carcere la band ha rilasciato una dichiarazione ufficiale in cui accusa Verzilov di dare un’idea sbagliata di loro: «Qualunque pretesa di rappresentarci e di agire col nostro consenso è una menzogna. Solo una donna in un passamontagna può parlare e agire per conto della band».

 

* Corrispondente da Mosca per il «Sunday Times» di Londra

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