12 Dicembre 2014
il Manifesto

La violenza maschile sulle donne e alcuni punti strategici per un cambiamento culturale in Italia

Ambasciata americana 1 dicembre 2014

Intervento di Luisa Betti

 

(…)

 

Tre punti per contrastare la violenza sulle donne

 

Se la violenza maschile contro le donne è una violazione di dimensioni globali storicamente basata sulla discriminazione tra i sessi – rilevata non solo dai movimenti femministi ma da un ampio panorama come fenomeno trasversale – per affrontare il cambiamento necessario, occorre un po’ di sano pragmatismo che avendo chiaro il problema, nella sua complessità, lo affronti. Ma in un Paese dove, secondo il rapporto del World Economic Forum, ci vogliono ancora 81 anni per raggiungere una certa equità tra uomini e donne (l’Italia è al 69° posto nel Gender Gap) e in cui la discriminazione delle donne è ancora sostenuta da una cultura assuefatta da quegli stereotipi che sono alla base stessa della violenza sulle donne, su cosa bisognerebbe puntare per attuare un vero cambiamento culturale? I nodi, secondo me sono tre: primo fra tutti una proficua e continua interlocuzione della società civile delle donne con le istituzioni che non sia una tantum ma un reale e serio scambio di saperi e punti di vista. Come, per esempio, suggerito da Feride Acar, componente CEDAW (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) e già CAHVIO (Committee on Preventing and Combating Violence against Women and Domestic Violence), l’efficacia della Convenzione di Istanbul se da una parte dipende da quanto le istituzioni saranno in grado di attuarla, dall’altra è legata a quanto la società civile sarà coinvolta in questo processo. Un principio, quello della partecipazione diretta della società civile delle donne all’applicazione di politiche di genere volte al contrasto sulla violenza, che è il perno del cambiamento culturale e senza il quale non è possibile se non con una imposizione dall’alto. Una trasformazione che, secondo me, parte da questa collaborazione e che per quanto riguarda il cambiamento culturale come prevenzione alla violenza si concentra su due centri propulsivi: l’istruzione e i media.

 

Media e informazione

 

Sui media si sono espressi sia la Convenzione di Istanbul che l’Onu. Nelle ultime Raccomandazioni all’Italia del Comitato Cedaw nel 2011 (Committee on the Elimination of Discrimination against Women) e nelle Raccomandazioni della Special Rapporteur dell’Onu, Rashida Manjoo, nel 2013, vi è la parte che riguarda il ruolo dei media e dell’informazione. Nelle Raccomandazioni Cedaw viene raccomandato all’Italia di “predisporre in collaborazione con un’ampia gamma di attori, comprese le organizzazioni femminili e le altre organizzazioni della società civile, delle campagne di sensibilizzazione attraverso i media (…), affinché la violenza nei confronti delle donne venga considerata socialmente inaccettabile”. Nelle raccomandazioni Onu di Manjoo, si raccomanda di “formare e sensibilizzare i media sui diritti delle donne compresa la violenza contro le donne per ottenere una rappresentazione non stereotipata delle donne e degli uomini nei mezzi di comunicazione nazionali”. Mentre nella Convenzione di Istanbul si chiede, all’art.17, che “Le Parti incoraggiano il settore privato, il settore delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e i mass media, nel rispetto della loro indipendenza e libertà di espressione, a partecipare all’elaborazione e all’attuazione di politiche e alla definizione di linee guida e di norme di autoregolazione per prevenire la violenza contro le donne e rafforzare il rispetto della loro dignità”. Ma per quanto riguarda i media non basta, perché è necessario fare un discorso a parte sull’informazione giornalistica che, per sua natura e carattere, necessita di un approccio diverso rispetto ai media e alla comunicazione in generale in quanto le informazioni date da giornali, telegiornali, speciali e programmi tramite stampa, tv e web – a differenza di fiction o pubblicità – si pongono nei confronti dell’opinione pubblica come oggettive, quasi super partes, influenzando in maniera diretta la percezione di un fenomeno e di quello che accade, e che sulla narrazione della violenza sulle donne può anche produrre gravi danni come la rivittimizzazione attraverso un’informazione scorretta proposta invece come oggettiva.

 

Dando uno sguardo d’insieme possiamo tracciare un iter preciso su cosa hanno fatto e fanno i giornali italiani riguardo la violenza sulle donne: da un totale disinteresse negli anni passati (eppure il fenomeno già c’era) quando il 25 novembre era una giornata come un’altra, alla descrizione morbosa e deviante che si risolve nel racconto horror di cronaca nera, fino alla iperesposizione della violenza con articoli “fotocopia” privi di un reale approfondimento e quindi sostanzialmente non sempre utili a una comprensione reale. Fino a qualche anno fa i giornali italiani, malgrado i dati Istat (2007) riportassero che l’80% della violenza era violenza domestica e malgrado la maggior parte degli autori fossero membri maschi della famiglia italiana (mariti, fidanzati, ex o partner respinti), davano grande risalto allo stupro o al femmicidio da parte di un immigrato, mentre relegavano in secondo piano uccisioni di donne dopo una lunga serie di violenze domestiche, ricalcando il solito background stereotipato e chiamando in causa raptus, infermità mentale, gelosia, delitto passionale, problemi economici, quasi fossero attenuanti, e descrivendo la vittima come se avesse cercato il pericolo. Citando il “Rapporto Ombra” presentato dalla “Piattaforma Cedaw” a New York nel 2011 dalle Ong italiane: “I media spesso presentano gli autori di femmicidio come vittime di raptus e follia omicida, ingenerando nell’opinione pubblica la falsa idea che i femmicidi vengano commessi da persone portatrici di disagi psicologici o preda di attacchi di aggressività improvvisa. Al contrario, negli ultimi 5 anni meno del 10% di femmicidi è stato commesso a causa di patologie psichiatriche o altre forme di malattie, e meno del 10% dei è stato commesso per liti legate a problemi economici o lavorativi”. Grazie alla mobilitazione delle donne della società civile italiana, che ha spinto tantissimo per la ratifica della Convenzione di Istanbul, nel 2011 si è cominciato a pronunciare anche qui la parola “femminicidio”, nel tentativo di trattare questi argomenti in maniera meno stereotipata. Si è cominciato a dare una prospettiva diversa alla narrazione della violenza di genere nell’informazione, al fine di argomentare il fenomeno con una prospettiva che superasse alcuni cliché sulle donne, trattate come prede o come tentatrici, cercando di porre un argomento da sempre relegato alla cronaca nera a un argomento con una sua dimensione specifica, evitando così di raccontare la solita storiella isolata e sganciata dal resto, colma di particolari morbosi e dando un giusto peso a quello che avveniva sulla pelle delle donne italiane. E questo grazie a una rete di scambio interdisciplinare che ha visto collaborare giudici, avvocate, centri antiviolenza, giornaliste, psicologhe, operatrici, in un proficuo scambio di saperi verso una più corretta informazione. Ma la sottovalutazione non è l’unica causa di rivittimizzazione mediatica, perché anche una iperinformazione, se fatta in maniera improvvisata, può essere pericolosa. In Italia in pochi mesi il termine femminicidio è stato ridotto dai giornali a uxoricidio perché impropriamente abusato da chi non ne conosceva il significato e che pur non avendo strumenti, si avventurava senza competenze. Un pericolo perché lentamente il livello è sceso a favore di una cultura che stigmatizza, attraverso un’informazione scorretta, da una parte gli uomini-mostro e dall’altra donne senza spina dorsale che non si sanno difendere.

 

I messaggi che sono stati veicolati dalla fine del 2013 in poi in Italia, sono stati per lo più su un piano di superficialità e molti programmi tv sono stati confezionati da giornalisti che si sono improvvisati e che hanno contribuito ad abbassare fortemente il livello di confronto, mentre sulla stampa nazionale ci sono stati casi in cui giornalisti e opinionisti prestigiosi ma completamente a digiuno su questi temi, hanno sentito il bisogno di disquisire su situazioni e di spiegare cause di fatti senza strumenti né formazione, ingenerando confusione e portando indietro il lavoro fatto da altre, soprattutto dalle donne. Errori commessi in base ad un altro stereotipo, ovvero che mentre di politica, di economia, di sport, di cronaca, di cultura, si occupa il giornalista competente, ma per quanto riguarda le questioni di genere e la violenza sulle donne, chiunque può prendere parola e dire la sua, come fosse un tema libero. A dimostrazione che tutto ciò che riguarda discriminazione e violenza sulle donne, così come le questioni di genere, sono in Italia ancora considerati argomenti di serie B, dentro e fuori l’informazione, c’è la convinzione che non serva preparazione perché non c’è un vero sapere su questo. Una superficialità, in parte basata su una realtà che andremo a vedere, che su ampia scala ha creato un’onda mediatica enorme che, essendo instabile e priva di basi solide, si è inevitabilmente spenta creando enormi e gravi malintesi. Come quello sulla parola femminicidio che la sociologa Marcela Lagarde non ha definito come uxoricidio ma come “la forma estrema di violenza di genere contro le donne, prodotto della violazione dei suoi diritti umani in ambito pubblico e privato, attraverso varie condotte misogine che comportano l’impunità delle condotte poste in essere, tanto a livello sociale quanto dallo Stato e che, ponendo la donna in una situazione indifesa e di rischio, possono culminare con l’uccisione o il tentativo di uccisione della donna stessa, o in altre forme di morte violenta di donne e bambini, di sofferenze psichiche e fisiche comunque evitabili, dovute all’insicurezza, al disinteresse delle Istituzioni e all’esclusione dallo sviluppo e dalla democrazia”. Errori e confusioni che oggi ci faranno avere su un dizionario della Zanichelli la dicitura errata di femminicidio che sarà indicata come “uccisione o violenza compiuta nei confronti di una donna, spec. quando il fatto di essere donna costituisce l’elemento scatenante dell’azione criminosa”, in maniera del tutto errata.

 

Quindi se da una parte la sensibilizzazione e l’informazione sono aumentati portando a galla il problema – e questo è un fatto importante – dall’altra però è aumentata anche la banalizzazione e la spettacolarizzazione che poco ha a che vedere con la violenza sulle donne: una superficialità che fa oscillare l’informazione tra chi racconta il fatto indugiando su aspetti morbosi usando ancora raptus o delitto passionale – e quindi facendo leva su stereotipi culturali che minimizzano la gravità del reato insistendo sui profili psicologici dell’offender – e dall’altro un’informazione con articoli fotocopia (tutti uguali) ripresi da agenzie e senza una vera indagine che non approfondendo mantengono lo status quo. Le uniche eccezioni sono state le rubriche e i blog di alcune giornaliste che da tempo incoraggiano una narrazione differente, creando anche una vera e propria schizofrenia sulla stessa testata: pezzi fotocopia nel giornale ufficiale e pezzi di un certo spessore nei blog e nelle rubriche dove le giornaliste hanno una certa autonomia.

 

Ma cosa significa questo?

 

Prima di tutto che serve una formazione capillare dei giornalisti su temi che ancora non hanno il riconoscimento di un sapere autorevole. Un fatto fondamentale, la formazione ora obbligatoria anche per i giornalisti italiani, che serve per superare questa cultura della sottovalutazione della violenza, che poggiando sul pregiudizio della discriminazione di genere, devia anche la percezione dell’opinione pubblica sostenendo quegli stessi stereotipi che porta le donne a non essere credute in alcuni tribunali o in qualche caserma che rimanda la donna a casa perché si tratta di una semplice lite tra marito e moglie.

 

In secondo luogo che ciò che riguarda discriminazione e violenza sulle donne, così come le questioni di genere, non possono essere più considerati argomenti di serie B e perciò argomenti su cui tutti possono intervenire senza cognizione di causa.

 

In terzo luogo che se le direzioni dei giornali si avvalessero di alcune figure professionali da inserire direttamente nel tessuto del giornale formati sulla violenza e la discriminazione sulle donne, le cose cambierebbero, in quanto non basta essere “sensibili” ma bisogna conoscere le cose e bisogna essere preparati, studiare.

 

In conseguenza del secondo e terzo punto, c’è un quarto punto e cioè che gli articoli su femmicidio-femminicidio si spostino dalle interessanti rubriche e blog redatti da giornaliste che approfondiscono e evitano pezzi fotocopia o articoli morbosi, e che ormai si occupano del tema ritagliandosi delle “isole” a lato della testata, entrino invece a pieno titolo nella testata stessa e nelle prime pagine del giornale (senza essere relegate in fondo o con pezzi che occupano spazio minore).

 

Ma c’è un quinto elemento che non deve essere sottovalutato in questa partita ed è la presenza fisica delle donne nelle redazioni con ruoli di responsabilità e di comando e non solo perché sono giornaliste quelle che per lo più hanno promosso e continuano a promuovere sui loro blog una corretta informazione sulla violenza contro le donne, ma anche perché proprio la presenza delle donne in ruoli apicali dà un’altra valenza a questi stessi e danno una bella spallata alla discriminazione di genere. Donne che in Italia, ma anche nel resto del mondo, sono pochissime alla guida dei grandi giornali e che sono costrette a ritagliarsi delle “isole” al lato della testata, per poter sviluppare temi considerati di serie B per il loro direttore (secondo l’Osservatorio di Pavia, che ha condotto un’indagine presentata due anni fa, solo il 14% delle redattrici italiane occupa posti di comando come direttrice, vicedirettrice, caporedattrice). Tanto che il Consiglio dell’Unione Europea ha adottato una conclusione dedicata all’avanzamento delle donne ai livelli decisionali nei media, richiamando tutti gli Stati membri della Ue, le loro istituzioni e le aziende che operano nel settore dei media al rispetto degli obiettivi strategici di Pechino. Una presenza che deve essere incoraggiata a parità di merito rispetto agli uomini, sia nei media e nell’informazione, sia negli organi stessi di cui si dotano i giornalisti come appunto gli Ordini regionali e l’Ordine nazionale

[….]

http://ilmanifesto.info/storia/femminicidio-e-informazione-se-e-criminale-non-e-amore/

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