24 Ottobre 2016

La violenza si ripete, ma l’arte può inventare

di Silvia Baratella

Circa due settimane fa, un gruppo di ragazze ci ha contattate per avere dal nostro sito sostegno a un loro progetto di cortometraggio. Ci spiegano che il loro lavoro, un’opera prima, parte dalla «consapevolezza che l’arte ha un ruolo fondamentale nella sensibilizzazione su alcuni temi che sono difficili da affrontare», come la violenza sulle donne, e ci mandano una presentazione del soggetto.

Si tratta della storia di una quarantenne che sposa un coetaneo, notabile di un paesino sperduto dove lei va a vivere con lui. Lì non lega con le donne del luogo che la disprezzano perché si veste eccentricamente, scopre che il marito è indifferente e insensibile nei suoi confronti e subisce un tentativo di violenza dal suocero, il che dà il via a un declino verso la pazzia che sembra irreversibile.

La ricorrenza del 25 novembre (giornata mondiale contro la violenza alle donne) si avvicina e fioccano le celebrazioni. Spesso consistono in rappresentazioni di vicende accadute o immaginarie con trame dello stesso tenore di quella proposta dal nostro gruppo di ragazze. Un coro di storie che raccontano l’inesorabile distruzione di una donna e che hanno su di me un effetto agghiacciante. A volte mi sembra una sorta di propaganda terrorista nei confronti delle donne. Le artiste e le autrici invece le propongono con la sincera convinzione che raccontarle contribuirà ad aiutare le donne e a fermare la violenza maschile.

Ma è davvero possibile che queste narrazioni, oggi così inflazionate e stereotipate, producano trasformazione? Tutte ribadiscono, con dovizia di particolari, un solo aspetto della realtà: in tutte la donna è una vittima che non ha scampo, e che contribuisce con molte delle sue azioni a mettersi in potere dell’uomo che alla fine la distruggerà. Non si parla mai invece di tutto quello che è cambiato, malgrado la violenza degli uomini persista: il fatto che non sia più considerata un fatto privato ma uno scandalo sociale, che ci siano uomini che rompono esplicitamente la complicità con la violenza misogina dei loro simili, che ci siano donne che aiutano altre donne a sottrarvisi.

Questo battere su un solo aspetto, il peggiore, ha due effetti deleteri: il primo è che rischia di convincere donne e uomini che nulla è cambiato e nulla può cambiare. Il secondo è che, focalizzandosi solo sulla figura di lei, contribuisce a occultare la responsabilità degli uomini violenti e degli uomini assassini (al di là dell’essere vittima di violenza sessuale e psicologica, la loro protagonista «è vittima di se stessa, della sua follia», ci dicono infatti le giovani autrici del cortometraggio).

Forse tutto questo dipende dal taglio: in questo caso, per esempio, le autrici scrivono: «Il fine di questo lavoro è parlare, ancora una volta, di quanto sia deleteria una società che allontana ciò che non riconosce come standard». Ecco il punto: la violenza maschile contro le donne non è la manifestazione di una discriminazione verso qualche sporadica “diversa”: noi donne non siamo una strana minoranza, siamo metà (abbondante) di un’umanità normalmente divisa in due sessi ed è a questa normalità dell’essere donne che gli uomini reagiscono con la violenza. Non è intolleranza verso rare donne “devianti” così come non è l’opera di rari uomini “devianti”, ma un sistema di potere.

Di fronte a ciò che le donne hanno ormai visto e detto degli uomini, di fronte allo scandalo della violenza venuto alla luce, quel potere vacilla e cerca di riaffermare una propria legittimità, di riproporre lo sguardo maschile come unico sguardo possibile con cui anche noi dovremmo vedere noi stesse e il mondo. Ammette l’ingiustizia di quella violenza e ci offre la sua compassione conciliatoria finché restiamo nel ruolo di vittima predestinata e senza scampo. Che in fondo è quello che il patriarcato aveva assegnato alle donne. Forse è per questo che è più facile ridurre il tema della violenza maschile alla pura descrizione dei tormenti patiti dalle donne e all’accurata diagnosi dei loro errori, ed è tanto difficile trovare un’altra chiave.

Ma proviamoci, proviamo a scombinare il gioco e a buttarci dentro l’imprevisto della libertà femminile.

Io non sono un’artista e alle giovani autrici che ci hanno scritto posso offrire solo ragionamenti. Quando vado a vedere un film, mi aspetto di vedere cose non risapute, di trovare nuovi punti di vista da cui affrontare un problema, e di questo mi piacerebbe parlare con loro, se desiderano rispondere. Per chi volesse approfondire il loro progetto, il link è qui: http://www.mecenup.it/campaigns/ajala-m-una-donna-diversa-una-storia-comune/

(www.libreriadelledonne.it, 24 ottobre 2016)

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