30 Novembre 2015

La violenza su minori e adolescenti. Renderla dicibile

Riflessioni a partire dal libro di Annie Leclerc

di Luciana Tavernini


Il libro di Annie Leclerc Della Paedophilia e altri sentimenti (Malcor D’edizione, 2015) è un libro che inquieta. Quando ho invitato delle amiche all’incontro che si è tenuto al Circolo della rosa il 31 ottobre 2015, ho ricevuto dei rifiuti veementi e allo stesso tempo spaventati, una cosa che non mi era mai capitata prima. Della violenza sessuale, fisica o psicologica su minori e adolescenti, come penso sia più preciso chiamarla, si ha paura a parlare come se così si potesse esorcizzarla. Di questa paura, del silenzio, del tacitare con veemenza si parla nel libro, che non a caso è stato pubblicato postumo dall’amica Nancy Huston.

Leclerc è stata una filosofa e docente femminista che ha pubblicato quattordici libri con questo, e collaborato a diversi altri. Già nel ’74 con Parole de femme aveva portato all’attenzione l’importanza dei lavori di cura per la vita e aveva individuato il concetto di jouissance legata al corpo femminile, criticando l’esaltazione della forza e della virilità che svalorizza come deboli donne, creature piccole e anziane. Ha lavorato per vent’anni, dal 1970 al 1990, nelle carceri con laboratori di scrittura. Io direi che ha voluto liberare la parola imprigionata e, attraverso quella altrui, anche la sua.

Nel libro Della Paedophilia e altri sentimenti ha inventato un tipo di scrittura che apre lampi di comprensione e nello stesso tempo, come i lampi, può disorientare, una scrittura che della poesia mantiene la capacità evocativa di dire l’ancora non detto, obbliga a un coinvolgimento soggettivo e non offre mai soluzioni pacificanti.

Quando Lea Melandri, che di questo libro ha scritto l’introduzione, con una email ha invitato le donne in contatto con lei a leggerlo, ha suscitato subito il mio interesse perché l’incontro con un “pedofilo delicato”, un “lupo mellifluo”, come li chiama Leclerc, con un uomo che ora riconosco mi ha fatto violenza sessuale e psicologica, è stato uno dei nodi da cui si è sviluppata la mia riflessione con le amiche della Comunità di storia vivente, che dal 2006 si riunisce alla Libreria delle donne, e ne ho scritto in modo articolato nel numero di DWF dedicato alla pratica della storia vivente (Gli oscuri grumi del disordine simbolico in DWF n.3/2012, pp. 35-45).

Io vedevo in quell’incontro l’origine di una difficoltà di parola pubblica legata profondamente al proprio sentire, parzialmente superata con la messa in atto di diverse strategie per dirmi senza dirmi fino in fondo, come del resto credo abbia fatto Leclerc, altrimenti non avrebbe scritto i suoi tredici libri prima di questo, e come hanno fatto, ad esempio, Azar Nafisi prima di scrivere Le parole che non ho detto (Adelphi, Milano 2008) e Ornela Vorspi nel racconto Corona di Cristo (Il paese dove non si muore mai, Einaudi, Torino 2005).

Infatti l’incontro con un uomo che ti fa violenza genera, come scrive Leclerc (p.45), «confusione», «uno smarrimento intimo di sé, di chi si è esattamente, di ciò che si desidera veramente”, crea «la rovina dell’ordine familiare del mondo» in cui «la parola era l’universo che legava gli esseri umani fra loro, per perpetuare la vita, ovvero per la crescita felice dei bambini». Leclerc sa «che all’improvviso tutto è stato mescolato nella sua gola, che le parole si sono mescolate tra loro, che neanche una poteva distinguersi e varcare la soglia della bocca. Nemmeno no, no, no… Anche no era perduto. Non parliamo poi del cielo, della terra, degli alberi, degli uccelli…»

Dunque questa confusione toglie parola, produce un silenzio che può durare tutta la vita. Un silenzio che genera paura perché la rappresentazione simbolica, quella che le parole danno dell’esperienza che abbiamo vissuto, non ci corrisponde, ma abbiamo un legame confuso col nostro vero sentire.

Per ritrovarlo, per metterlo in parole, Leclerc ha lavorato in solitudine prendendo i fili ingarbugliati del suo nodo da tanti punti, come il libro testimonia. Io sono stata più fortunata perché con la pratica della storia vivente le parole per dire l’invasività di quest’esperienza le ho scoperte grazie alle amiche della comunità che mi hanno aiutato con l’ascolto, con le loro riflessioni, con la lettura dei miei scritti, con i tempi lunghi, a coglierne alcuni aspetti e a rendere la mia parola pubblica più libera.

Sempre più bambine, adolescenti e giovani donne, che subiscono violenza soprattutto nell’ambito familiare, trovano le parole per «uscire dal deserto», titolo del convegno del 2001 promosso dalla Casa di accoglienza delle donne maltrattate, i cui atti sono stati pubblicati (Uscire dal deserto. Come in front the desert, Franco Angeli, Milano 2003). La relazione con una donna autorevole all’interno della famiglia, come la madre, la nonna, una zia, una sorella maggiore che presta loro attenzione e sa leggere i segni del disagio, le incoraggia a raccontare. A volte, più tardi, è la relazione fuori dalla famiglia con un’amica, un fidanzato, un’insegnante che le aiuta ad aprire un varco nel muro del silenzio. La vicinanza della persona che crede alle loro parole e di cui si fidano le porta a rivolgersi al centro antiviolenza. Anche qui è necessario dar loro credito rispettando i tempi necessari a ciascuna per trovare le parole e individuare quali scelte mettere in atto per diventare protagonista della propria vita.

Infatti da una situazione di assoggettamento si esce solo con una crescita di soggettività. Essa avviene in una relazione dove il meglio per l’adolescente o la giovane non viene deciso da altre, anche se l’intenzione è quella di aiutare, e tanto meno da una procedura standardizzata, ma dal sapere che si ha una donna accanto in una posizione valorizzante, in modo da poter affrontare le paure che la violenza ma anche la sua rivelazione provocano. Parlandone, non si teme solo lo sconvolgimento degli equilibri familiari, ma anche lo sconvolgimento della fiducia verso il mondo adulto da cui si dipende e la cui parola crea il senso del mondo. Come scrive Leclerc, chi subisce violenza «non vuole pensare: “è davvero cattivo, mi vuole fare del male”. Niente era stato previsto perché un simile pensiero si facesse strada. La benevolenza degli adulti per i bambini è tutt’uno, per lei con l’ordine del mondo. È la legge. Vuole restare, qualunque sia il prezzo da pagare, annidata nella benevolenza come un feto nel ventre di sua madre».

Credere che l’altro non voglia solo il tuo assoggettamento ma che in qualche modo ti ami è un modo per sottrarsi alla reificazione. Io per me l’ho capito attraverso le parole di Simone Weill (L’Iliade o il poema della forza, Asterios, Trieste 2012).

«La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno» (p.39-40). «Dal potere di trasformare un uomo in cosa, facendolo morire, deriva un altro potere, altrimenti prodigioso. Quello di trasformare in cosa un uomo che pur è vivo. Egli è vivo, ha un’anima, tuttavia è una cosa. Un essere ben strano una cosa che ha un’anima; che strana condizione per un’anima. Chi potrà dire quanto ci metterà ad adattarvisi in ogni istante, a torcersi e ripiegarsi su se stessa?» (p. 42).

L’esperienza di diventare cosa è annichilente fino a quando si rimane rinchiuse in quel mondo dominato dalla forza, dalla violenza di chi vuole assoggettarci. Ma la “cosa” non può parlare, non può giudicare.

La rottura dell’ingiunzione al silenzio è dunque la prima che permette di spezzare il cerchio.

Poi, se si possono scegliere le persone a cui parlare, che cosa dire, a chi farlo sapere e quando (quello che i centri antiviolenza chiamano rispetto dell’anonimato e dei tempi delle donne, senza obbligo di denuncia) si scopre che la volontà di rendere cosa una bambina, un’adolescente fa un danno temporaneo, per quanto lungo sia il tempo per uscirne. La vicinanza e il rispecchiamento positivo in altre donne consentono di costruire l’amore per sé e di riconoscere la mostruosità della violenza senza più aver bisogno di credere che vi sia in essa amore.

Anche il fatto che oggi si parli apertamente della sessualità ha permesso l’emergere del fenomeno della violenza soprattutto in famiglia. Ma come parlarne in un mondo dove al tabù si è sostituita l’esposizione gridata è qualcosa su cui pensare e il libro di Leclerc presenta alcune riflessioni su segreto e silenzio/scoperta della sessualità e ruolo delle persone adulte che sento vicine alle mie.

Lei è nata nel 1940. Io nove anni dopo. Mia figlia trentasette anni dopo di me.

Leclerc ci parla dell’importanza della porta chiusa dei genitori che difende, protegge. «Proprio perché la piccola non ha libero accesso a ciò che tiene occupati i genitori, proprio perché c’è questa distanza tra lei e loro, questa porta chiusa che intriga senza costringere, essa può inventare il luogo e il tempo del proprio segreto. La porta chiusa non è una censura. È tutto il contrario: è l’iniziazione più delicata, la meno autoritaria possibile della bimba verso la sua sessualità. E la bimba non è colpevole del suo desiderio, né colpevole del suo segreto…» (p.42).

La porta chiusa è metafora del limite anche ad altre pratiche, a volte purtroppo solo apparentemente innocenti come, ad esempio, il bagno in comune nella vasca da bagno, in cui l’adulto non mantiene la giusta distanza, non rispetta il pudore della creatura piccola, anteponendo e imponendo il proprio piacere, esercitando controllo e potere.

 

Occorre pudore e delicatezza, ma c’è dell’altro che possiamo fare. Da alcuni decenni diverse donne, e io tra queste, anche con i loro compagni, cerchiamo e inventiamo modi nuovi per dire, non solo con le parole, a figlie e figli la nascita e la sessualità. Non c’è un modo unico perché esso si trova e si crea nella relazione. Stare più vicine alla curiosità delle creature piccole e alla verità della nostra esperienza permette di aprire brecce perché il silenzio non si trasformi in mutismo.

Leclerc ha parole intense per renderci attente a non invadere, a lasciar che la bambina o il bambino cerchi ciò che cerca: «cioè il cammino di se stesso, vale a dire la conoscenza dell’oggetto del suo desiderio, e certamente quello che cerca, finisce per trovarlo a condizione che nessuno si metta di traverso nella costruzione di sé» (p.86).

Non solo il pedofilo, cioè l’uomo violento anche se mellifluo, che dice di voler iniziare alla sessualità la creatura piccola, si mette di traverso, ma anche i genitori con il silenzio che rende indicibile oppure, come è capitato a me, col sentirsi in obbligo, senza aspettare la curiosità della piccola, di rivelare come si nasce, o con la svalorizzazione o l’esibizione della sessualità.

È una materia complessa che ha ricadute non solo nel privato ma in ambito politico perché, se le parole mentono o rendono indicibile ciò che è legato profondamente alla nostra esistenza, esse perdono valore e sarà difficile esporsi.

Insomma, come accompagnare e non essere di ostacolo alla scoperta personale e autonoma della sessualità da parte di bambine e bambini non è facile. Occorre imparare a camminare su un crinale, per usare le parole di Luisa Muraro nel suo libro Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donne (Carocci, Roma 2011), e Leclerc sa darci delle indicazioni preziose per stare in equilibrio. Ma oggi vi sono donne che nei centri antiviolenza continuano a trasformare in sapere le pratiche di aiuto che giorno dopo giorno, anno dopo anno, mettono in atto perché sempre più bambine e bambini, adolescenti e donne si liberino dalla violenza. È il dialogo con loro, e per me in particolare con Marisa Guarneri della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, che può aiutare tutte e tutti a trovare le parole che, modificando il modo di pensare, permetta di prestare attenzione, vedere, accompagnare, stare accanto, valorizzare, far crescere la soggettività delle donne che abbiamo vicino. Perché è necessario essere «Prima di tutto libere», come dice il titolo dell’incontro aperto promosso dai centri antiviolenza che si terrà a Paestum nel marzo 2016.

(www.libreriadelledonne.it, 30 novembre 2015)

Print Friendly, PDF & Email