di Arianna Di Genova
A undici anni faceva i ritratti dei compagni di classe a china. Poi passo a guardare se stessa. Una volta cresciuta, scelse il giardino botanico di Palermo come set da riprodurre su fogli e tele. Sempre, negli occhi, conservava l’abbaglio di luci brulicanti delle saline della madre, a Trapani. Carla Accardi, l’artista siciliana che ha scritto la storia dell’astrattismo italiano, se n’è andata a 89 anni. Ricoverata per un ictus al santo Spirito domenica mattina, non si è più ripresa. Eppure, a dispetto della sua età, era ancora in piena attività. A fine gennaio, il suo collaboratore storico e artista Francesco Impellizzeri aveva terminato un lavoro certosino di inventario, in vista di un progetto di Fondazione dedicato all’intera sua opera. E per il prossimo ottobre, a celebrazione dei novant’anni, il museo Riso di Palermo le aveva offerto la sede per ospitare una grande mostra.
Dolci contrasti
Decana della pittura italiana, nata nel 1924 a Trapani, Accardi passò giovanissima dalla «mimesi» dell’autoritratto all’esplosione geometrica delle forme in libertà. Fu per lei un passaggio naturale, umanistico e insieme politico: il quadro vissuto come l’interprete di un campo di battaglia, un luogo di contrasti dolci, in cui si palesava l’ambiguità percettiva, l’impossibilità di una verità unica, l’idea che l’armonia si assaggia solo sperimentando e non a tavolino, con tesi pregiudiziali. Sarà questa stessa apertura filosofica a condurre l’artista sulla strada internazionale dell’astrattismo, una volta trasferitasi a Roma. Dopo numerose sortite all’Osteria Fratelli Menghi di via Flaminia, luogo di ritrovo di registi e pittori, il 15 marzo 1947 Carla Accardi prese la sua posizione nell’ambito della controversia che infiammava l’Italia intellettuale del dopoguerra: fra astrattismo e realismo scelse il primo, aderendo al manifesto del gruppo «Forma 1» (nella foto in pagina), convinta che, come venne sigillato anche per iscritto, «i termini formalismo e marxismo non siano inconciliabili». Con lei c’erano Antonio Sanfilippo (suo marito nel ’49 e padre della figlia Antonella, da cui si separerà nel 1964), Giulio Turcato, Ugo Attardi (che poi tornerà al figurativo), Mino Guerrini, Piero Dorazio, Achille Perilli e Pietro Consagra. Dall’altra parte della barricata,si stagliava Renato Guttuso e, schierato con lui, il segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti. Nonostante Carla fosse profondamente legata al partito, non indietreggiò. L’arte doveva avere il suo linguaggio, senza rispondere a nessuna ideologia.
Coerentemente, dovrà troncare la relazione stretta con il Pci: ci vorrà del tempo, ma lo farà nel 1956, non rinnovando la tessera e non solo per gli avvenimenti in Ungheria. Il divorzio fra arte e politica era stato graduale, la relazione si era progressivamente deteriorata, congelata in posizioni dissonanti, aveva assunto su di sé i termini di una scomunica interiore. «Nel nostro lavoro adoperiamo le forme della realtà oggettiva come mezzi per giungere a forme astratte oggettive, ci interessa la forma del limone, e non il limone», affermavano i paladini di «Forma 1». Nella foto che ritrae insieme i componenti del gruppo, Carla occupa il centro: nonostante sfoggi un delicato vestito a fiorellini, ha una postura statuaria e frontale che lascia intuire un carattere fuori dal comune e una forza che si rivelerà vincente e la porterà ad assumere una posizione di rilievo in un mondo culturale dove le donne, quando previste, erano costrette a ritagliarsi piccoli spazi. La sua «stanza tutta per sé» invece, divenne una fucina internazionale.
I segni fluidi di Accardi, quelle matrici arabeggianti di universi astratti che trascendevano il supporto della tela e trasmigravano nello spazio, non passarono inosservati e catturarono l’attenzione di Michel Tapiè, il francese che sguinzagliò l’Informale, fornendogli le coordinate critiche per orientarsi nel mondo. Fu lui a invitarla nel 1955 alla rassegna internazionale Individualità d’oggi che si tenne in due sedi: presso la Galleria Spazio a Roma nella collettiva insieme a Burri, Capogrossi, Fontana, Klein e alla Galerie Rive Droite di Parigi, dove espose con Poliakoff, Mathieu, Riopelle, Sam Francis. Accardi però si dichiarò sempre lontana dallo spontaneismo informale. «Anche se in me c’era un certo automatismo quando mi mettevo per terra a disegnare o dipingere bianco su nero, mantenevo il controllo su quello che facevo». Il segno dell’artista, infatti, pur se all’inizio immaginato libero, era sempre strutturato. Somigliava a un alfabeto visivo che conteneva in germe un principio programmatico e poetico. Per Carla Accardi, era necessario che un segno perdesse la sua arbitrarietà e la sua «solitudine». Doveva farsi gioco imprevedibile sì, ma con delle regole. «Il mio scopo è di rappresentare l’impulso vitale che è nel mondo», diceva. E lo fece, oscillando fra due poli, quello costruttivo e quello organico, dando vita ad amebe in grado di creare architetture.
Intanto, si guardava in giro. Frequentava Lucio Fontana di cui ammirava la composizione (razionale) di buchi e tagli. Sarà proprio quest’ultimo, in giuria, a fare il suo nome per la Biennale del 1964, dove conquistò una intera sala. È l’anno degli americani Pop, che Accardi osservava da lontano con simpatia, non dimenticando però il fascino che aveva esercitato su di lei Jackson Pollock, soprattutto per il suo modo di lavorare totalizzante, abbracciando tutto lo spazio.
Anche il suo segno cominciò a fuoriuscire dal supporto. Tra le possibili forme scelte per applicare e suggellare la potenza di quella calligrafia ripetuta ossessivamente, l’artista negli anni Sessanta si concentrò su una tenda. Nella trasparenza e smaterializzazione delle pareti di quel rifugio — la tenda come luogo nomadico per eccellenza, ricreata sulle suggestioni di abitazioni turche — aveva trasposto tutta la sua filosofia artistica. Per lei, rappresentava un azzeramento della civilizzazione, un simbolo magnetico.
A presentare il lavoro, in catalogo, c’era un testo di Carla Lonzi (una foto in pagina le ritrae). Gli anni Sessanta furono un decennio importante anche per l’amicizia intensa e culturalmente assai fertile con lei. Fu allora che si conobbero la critica d’arte femminista e l’artista che amava l’astrattismo; nel 1970 quel loro sodalizio sfociò in Rivolta Femminile, uno dei primi collettivi femministi in Italia, con annessa una piccola casa editrice con la quale verranno pubblicati importanti saggi teorici. Carla Accardi fu una co-autrice del manifesto (venne redatto nel suo studio di via del Babuino) che attestava la necessità non di una neutra uguaglianza fra sessi, ma il riconoscimento di una orgogliosa differenza. Studiò le artiste del passato insieme a Carla Lonzi — Artemisia Gentileschi, Angelika Kauffmann — e nel 1971 pagò la sua militanza con l’interdizione dall’insegnamento (aveva distribuito alle alunne l’opuscolo di Rivolta femminile). Nel tempo, però, non riuscì a reggere l’«estremismo» provocatorio delle posizioni dell’amica. La rottura fu traumatica, ma inesorabile. Per Accardi, l’arte era una ragione irrinunciabile di vita, mentre l’altra andava allontanandosi da lei, perseguendo solo la strada della politica. «Mi sono trovata all’opposto della tesi radicale per la quale la cultura è maschile e la donna standovi dentro opera un tradimento», confesserà in seguito.
La barriera del Sicofoil
Negli anni, Accardi aveva imparato a non demordere mai. Anche da anziana, tormentata dai dolori alla schiena, aveva continuato a lavorare tutti i pomeriggi, con la consueta metodicità di sempre, esclusa la domenica. La mano ferma, dipingeva pure su tele di grandi dimensioni, seduta di fronte al suo tavolo inclinato per architetti. Schizzi, disegni e fotocopie la aiutavano ad orientarsi nel groviglio della nuova opera. Negli anni Quaranta era partita con una sinfonia di segni in bianco e nero, per poi passare ai colori, aveva sperimentato le vernici fluorescenti, era più volte tornata sui suoi passi per fare salti in avanti. Attenta ai materiali nuovi e curiosa di ciò che accadeva in altre parti del mondo, presto si concentrò sulle potenzialità della plastica: la sua trasparenza prometteva una possibile deflagrazione del dentro/fuori, interno/esterno. La plastica era perfetta per incarnare quella sua vecchia idea di relativismo, abbatteva i confini dati.
Il sicofoil visto come barriera mobile contro la rigidità opaca della tela. «Uso la plastica come cosa di luce, mescolanza, fluidità con l’ambiente intorno: forse, anche per togliere al quadro il suo valore di totem». Rotoli e Lenzuoli moltiplicheranno quelle trasparenze trasformandole in paesaggi veri e propri. Della plastica, l’artista amava anche la fragilità, una caratteristica che andava in controtendenza rispetto al valore durevole dell’arte. In fondo, è un’allusione ironica a un gioco intrapreso per procurare piacere a sé e agli altri. Che Carla Accardi si sia sempre divertita nel suo lavoro lo dimostra un’opera eccentrica nel suo percorso: quel pavimento percorribile, «taggato» con la sua particolare calligrafia e reso sonoro dalla cantautrice Gianna Nannini. Esposto nel 2011 a Catania, presso la Fondazione Puglisi Cosentino, con la sua ceramica dipinta in blu faceva risuonare le note che la musicista aveva raccolto sulla piazza Rossa di Mosca.
(il manifesto, 25 febbraio 2014)