Judith Butler – «L’alleanza dei corpi. Note per una teoria performativa dell’azione collettiva», traduzione di Federico Zappino, 2017, nottetempo edizioni
Una lettura di Rosaria Guacci
«L’alleanza dei corpi», pubblicato in Italia in questo febbraio 2017, è stato scritto nel 2015, cioè un anno prima della nomina presidenziale di Donald Trump: le imponenti manifestazioni di dissenso dal suo programma messe in atto da migliaia di donne a Washington e da altrettanti obiettori del Muslim Ban negli aeroporti americani dicono della grande attualità del testo. Ma a mio parere non è questa attualità il suo vero pregio quanto piuttosto la riflessione di Butler, più ricca e puntuale delle sue precedenti, sulla politica dei corpi sulla scena pubblica.
A fronte delle crisi delle democrazie e della predatorietà crescente del neoliberalismo e delle politiche delle multinazionali, Butler, nell’introduzione del saggio, analizza il processo di precarizzazione delle condizioni dell’inclusività, cioè la crescente “dispensabilità” dei singoli, di cui sono costituiti i popoli di Stati e nazioni, dalla collettività. Ma, si chiede Butler, cos’è dispensabilità, cos’è popolo ed esiste un concetto unitario che possa definirlo o non si dovrebbe invece parlare di due popoli, quello degli inclusi e quello degli esclusi da condizioni minime di vivibilità? Torna qui il concetto di “buona vita” da lei posto, sulla scia di Adorno, in «Vite precarie» del 2013. In questione, in «L’alleanza dei corpi», non è più solo la buona vita ma la vita tout-court. Butler qui riprende e sostiene ancor più energicamente l’assunto che si possa e si debba vivere una vita giusta pur in un mondo eticamente ingiusto. In dettaglio: il liberalismo promuove retoricamente l’autonomia economica del singolo ma non la rende effettiva con alcun provvedimento economico. Il destino di chi è incapace di resistere all’urto di un’economia organizzata per lasciarlo deperire può quindi essere una precarietà che diventa estrema fino alla morte. A poter offrire speranza e soluzioni è la politica di corpi in relazioni attive e incarnate: con queste nuove reti di sostegno simboliche e materiali il corpo, in un contesto plurale, torna al centro della politica.
Gli attori sociali così stretti in contesto sono, per Butler, i soggetti genderizzati, razzializzati, esclusi. Donne, omosessuali transgender, stranieri, lavoratori precarizzati, apolidi, malati, disabili, nuovi poveri. I “dispensabili”, gli estromessi dalla visibilità e dall’accesso sulla scena pubblica illuminata. Dispensabili perché sollevati dalla “responsabilità” che è predicata dal Sistema-Stato come necessaria ai singoli cittadini per sopravvivere ma che in realtà non è sostenibile individualmente: ne sono esempio la pretesa di un’autonoma presa in carico delle cure mediche e di un alloggio – assunzioni che richiedono entrambe infrastrutture di sostegno che proprio esso Stato non garantisce. La scommessa è che i soggetti più vulnerabili e dispensabili conquistino il diritto di apparizione – il concetto è arendtiano ma sviluppato in un senso autonomo da Butler – nello spazio pubblico. Viene da domandarsi, e nel corso del testo se lo domanda la stessa Butler: il gender, la forma di femminismo a cui la filosofa ha legato le sue analisi, rimane l’agente primario di promozione del contesto solidale in cui i vari soggetti si legano in relazione, o in questa nuova teorizzazione le donne e i corpi genderizzati diventano uno dei vari agenti da collocare nel gruppo più generale dei “dispensati”? Sì, il femminismo resta il catalizzatore di ogni alleanza, lei scrive. Ed è suo compito diventare inclusivo rivolgendosi a chi è altro da sé, cioè a nuovi soggetti. La finalità è combattere la categorizzazione e la definizione con cui il maschile tenta di manipolare e modellare i soggetti – e quindi i corpi – più vulnerabili. Processo fallibile, come comincia a vedersi oggi con la fine del patriarcato. È importante il piano su cui si muove Butler; quello di un’idea di politica che mette in gioco i corpi. Mi soccorre qui l’analisi puntuale di cosa sia una pratica di relazione fatta da Federica Castelli durante la presentazione di «L’alleanza dei corpi», il 13 febbraio, al Tuba Bazar di Roma. Secondo lei la politica delle relazioni, perché incarnata, mette in atto trasformazioni che escono dall’a-priori e dal piano di diritti rivendicati in astratto. Ancora – ed è molto interessante che Butler lo dica – questo tipo di relazione non si fa semplicemente nelle piazze, che comunque ne mostrano con massima evidenza la modalità corporea. In questo contesto, la politica dei corpi diventa una nuova politica che situa fuori da quella cosiddetta dei diritti: non si scende in piazza per un diritto astratto; i diritti non si chiedono: si creano le condizioni per ottenerli e in questo modo si spostano dal piano tradizionale della politica. Le regole vengono fatte nel concreto, lavorando nel contatto, nello stare insieme ma anche nello spostare l’immaginario a partire da relazioni incarnate. Queste pratiche di relazione – e qui torno alle parole di Butler – non mirano alla costruzione di un’identità collettiva, di un “Noi” nel vecchio senso della tradizione liberale inclusiva (ed escludente) di cui ho già detto. Butler ora si misura, ed è innovativa rispetto a sue formulazioni precedenti, con una nuova idea di popolo e di populismo. Non negativo se inteso in questa radicalità: la questione, la passione sta nel dare un senso fino a ora inedito al mondo a cui di necessità apparteniamo producendo attenzione all’altro e cura; mettendo in essere responsabilità collettive e senso di appartenenza. Entrando ancor più dentro le problematiche del testo, in «L’alleanza dei corpi», Butler racconta il suo percorso dalle prime riflessioni circa i diritti delle minoranze sessuali all’analisi di che cosa sia un’alleanza e del come la si possa costruire. Se in «Questioni di genere», scritto nel 1990, lei ipotizzava la potenzialità di sovversione di determinati atti individuali, con tutto il loro potenziale non solo distruttivo ma anche creativo, rispetto alle norme di genere, ora sposta il focus dell’indagine. Se già nelle riflessioni di allora il gender segnalava, nominava, indicava la vulnerabilità della nostra condizione umana, il nostro essere esposti, sempre dipendenti da relazioni e ordini discorsivi che ci precedono e ci eccedono, ora l’indagine allarga sempre più il concetto di precarietà. «Termine intermedio che è anche, in qualche modo, un termine di mediazione» essa, per Butler, può in determinate condizioni costituirsi come luogo di alleanza tra varie minoranze o parti di popolazione più vulnerabile; tra quei gruppi di persone, talvolta perfino diffidenti gli uni degli altri se non antagonisti, che hanno poco in comune tra loro al di là di una possibile relazione. Butler resta convinta che le politiche identitarie non esauriscano la questione di cosa significhi vivere insieme nonostante e attraverso le differenze, in una prossimità «non scelta deliberatamente ma vista come l’unica istanza etica possibile». E con quella libertà che «non presuppone né produce un’identità collettiva, quanto, piuttosto, un insieme di possibilità e di relazioni dinamiche che includono forme di supporto reciproco, conflitto, rotture, gioia, solidarietà». In conclusione, dal movimento Occupy alle proteste di Atene, dalle cosiddette “primavere arabe” al Parco Gezi di Istanbul, alle rivolte di Ferguson, dalle mobilitazioni queer a quelle degli immigrati, la tesi di Butler è che negli ultimi anni, dal 2011 in poi, all’interno di lotte democratiche, questi raduni possano esprimere forme di resistenza e solidarietà radicali da cui emerge una nuova idea di “popolo”. Non omogeneo, non unitario, non includibile in un falso universalismo ma portatore di differenze incarnate e di una finalità d’intenti. Un popolo di diversi in alleanza che interroga cosa sia l’etica che sottende il patto sociale.
(Via Dogana 3, 6 marzo 2017)