di Franca Fortunato
Nei giorni dell’orrore, dello sgomento e del dolore, seguiti alla tragedia nel mare di Lampedusa, ero a Paestum insieme alle donne della rete delle Città Vicine, al secondo grande appuntamento del femminismo italiano – dopo quello del 2012 sul “Primum vivere… anche nella crisi”. Un primum che mi (ci) rende vicini tutti quegli esseri umani che, da anni, fuggono dai propri Paesi, in cerca di una vita da vivere. Ogni volta, la loro, è una sfida alla crudeltà degli scafisti e alla mancanza di umanità di leggi che permettono il libero trasporto delle merci ma non degli esseri umani e di leggi vergognose – come la Bossi-Fini del 2002, inasprita nel 2009 dall’introduzione, col consenso dei molti, del reato di clandestinità – che hanno cercato di trasformare il mare Mediterraneo in un “muro”, in difesa dell’egoismo dei cittadini legittimi da altri esseri illegittimi. Come è stato ricordato a Paestum, “ci sono corpi che contano e corpi che non contano”. Non contano i centinaia di corpi senza nomi, galleggianti o inabissati, che gridano “vergogna” a quanti ne hanno fatto dei “clandestini” e perciò stesso dei “criminali”. Non contano i corpi di centinaia di esseri umani rifiutati, morti in dispregio a qualsiasi senso di umanità e per la cui sepoltura non bastano neppure le bare. Dopo i primi corpi (111) che “non contano”, recuperati e sistemati nelle bare, per tutti gli altri (252), che sono da recuperare, non c’è una bara. Infilati nei sacchi e chiusi nella cella frigorifera, stanno in attesa che giunga per loro la nave con il ponte scoperto. Dove li porteranno? Certo, non nei vergognosi Centri di identificazione ed espulsione. Loro sono stati già espulsi, ma dalla vita. Alla presidente della Camera Laura Boldrini e alla ministra dell’Integrazione Cécile Kyenge, e a quante/i volessero seguirle, chiedo con forza di alzare le loro pretese e chiedere autorevolmente la cancellazione della vergogna dei Cei, del decreto legge sulla “sicurezza” e della Bossi-Fini. Non permettano che la loro esperienza di donne venga neutralizzata dai partiti al governo e in parlamento, in nome della “stabilità”.
Di fronte a tutti quei corpi “che non contano” ma si contano, mi chiedo come si è potuto arrivare a tanto. Come non pensare all’egoismo e alla crudeltà di una società opulenta chiusa nel piccolo spazio degli interessi di pochi? Come è potuto accadere che per molti esseri umani Lampedusa da “porta della vita”, “porta dell’Europa”, sia divenuta porta della morte? Come è potuto accadere dopo che, grazie al lavoro di accoglienza di Giusi Nicolini e di tante donne e uomini di Lampedusa, è stato eretto il monumento all’accoglienza e alla vita perché stragi come queste non avvenissero mai più? Conosco la sindaca e molte di quelle donne e uomini, sin da quando nel 2011 alcune della rete delle Città Vicine scegliemmo di passare una vacanza politica a Lampedusa. In quell’inverno l’isola si era resa tristemente famosa per l’“emergenza” degli immigrati tunisini, che il governo Berlusconi e il ministro Maroni strumentalizzarono per fare passare in parlamento il famigerato “pacchetto sicurezza”, che introduceva il reato di “clandestinità”. Una vergogna che porta le firme di Berlusconi, allora presidente del Consiglio, Maroni, ministro dell’Interno, Alfano, ministro della Giustizia e Carfagna, ministra per le Pari Opportunità. Il decreto legge venne controfirmato dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Allora Giusi Nicolini era responsabile di Legambiente e lei ci fece capire come a Lampedusa, nei tre mesi di emergenza, era stato “massacrato” un modello di accoglienza, “una vocazione naturale” di “isola di accoglienza”, “terra che ti salva la vita”, “ponte del Mediterraneo”, e trasformata in “isola carcere”. Nei mesi dell’emergenza, infatti, il Ministro Maroni e il sindaco di Lampedusa, De Rubeis, denunciato allora, come il suo collega di Treviso, per istigazione al razzismo, scelsero deliberatamente di abbandonare quella gente alla fame e al freddo, per creare il sovraffollamento e fare scoppiare il “caso Lampedusa”. È da questa storia, politica e legislativa, che vengono i corpi senza nome dell’ultima grande tragedia di Lampedusa. Una storia che va riconosciuta come un’onta e cancellata. Profonda è la mia vicinanza e delle donne e uomini della rete delle Città Vicine alla sindaca Giusi Nicolini, alle migranti e ai migranti, alle abitanti e agli abitanti dell’isola, a Giacomo Sferlazzo dell’associazione Askavusa e Rossella Sferlazzo dell’associazione Color Revolutions, che piangono, ancora una volta, morti senza nomi, corpi che “non contano”.
(Il Quotidiano della Calabria, 9 ottobre 2013)