Anno zero di un uomo.  Finalmente!  Mauro Magatti non è affatto il primo a rendersi conto che i rapporti tra donne e uomini sono cambiati, ma è il primo esponente di quell’umanità maschile pensante che, per quarant’anni, si è sforzata di pensare che non stava capitando niente. (Anno zero, intitola giustamente il giornale.) L’autore non nomina il femminismo, ma lo conosce e, qualunque cosa ne pensi, non è tra quelli (e quelle) che criticano il femminismo con argomenti presi dal pensiero femminista, ultimo esempio in tal senso: la francese Catherine Aubin in Donne Chiesa Mondo 49. Magatti, tuttavia, non resiste alla tentazione di insegnarci la strada: “Per le donne, si tratta di completare una transizione…”. Dice cose giuste, ma… C’è un ma ed è che non tiene conto della sua parzialità di uomo. Per cui salta fuori, non detto e probabilmente non consapevole, il suo desiderio di una promozione dell’umanità femminile in termini di complementarità. Per le donne infatti, secondo lui, si tratterebbe di portare un contributo (che lui stesso descrive) e un completamento. A che cosa? A quello che c’era prima? (N.d.R.)
17 Ottobre 2016
27esimaora

L’anno zero di una presa di coscienza maschile

di Mauro Magatti

L’anno zero per i maschi

Sul palcoscenico delle elezioni presidenziali americane Donald Trump e Hillary Clinton mettono in scena, in una sorta di epica rappresentazione che alterna toni da tragedia e da farsa, la rinegoziazione in corso nella cultura contemporanea del rapporto uomo-donna. Da un lato Trump, lo spaccone, emblema del maschio che continua a giocare la classica accoppiata potere-sesso. Ma in un mondo in cui sono cambiati i rapporti di forza e l’intero ordine simbolico si va ridefinendo per l’incalzare delle trasformazioni nella sfera riproduttiva, la riproposizione del vecchio cliché di «sciupafemmine» (incarnato negli ultimi anni da Berlusconi, Sarkozy, Strauss-Kahn) suona un po’ patetica. Dietro il grottesco che affiora nelle affermazioni sessiste c’è in realtà il tentativo, comprensibile ma perdente, del maschio contemporaneo di rifugiarsi nell’“usato sicuro” del conquistatore, pura potenza esercitata arbitrariamente al di là della legge. Un modello che pure tocca corde profonde dell’elettorato maschile, ma non può far altro che forzare sempre di più i toni, fino ad autodistruggersi. Dall’altra parte Hillary, emblema della donna capace e determinata, madre e moglie senza paura. La sua biografia rivela tratti “eroici”. Dotata di uno spiccatissimo senso del potere, Hillary ha tenuto insieme carriera e famiglia, sopportando persino l’umiliazione del tradimento del marito presidente; vera lady di ferro, come Thatcher e Merkel. Eloquente più di mille parole il suo sguardo ironico durante il dibattito televisivo, mentre interloquiva con un uomo che (come suo marito peraltro) appartiene alla schiera dei “predatori sessuali” (Michelle Obama). Eppure, il suo problema è quello di non diventare solo una macchina da guerra, più dura dell’uomo più duro, segretamente motivata dalla volontà di dimostrare chi porta veramente i pantaloni.

Quanto sta accadendo negli Stati Uniti ci riguarda dunque tutti, uomini e donne di questo tempo chiamati a far avanzare un processo dagli esiti ancora incerti. Per evitare la fine patetica del Trump di turno, gli uomini di oggi devono rendersi conto che è venuto il tempo di tentare qualcosa di simile a ciò che le donne stanno facendo da un secolo rispetto al proprio ruolo: e cioè chiedersi cosa vuole dire essere maschi oggi. In rapporto all’altro sesso, ai figli, al mondo, a se stessi. Pensare di riprodurre i cliché del passato è comodo, ma stupido. Non si tratta in ogni caso di arrivare a delineare un nuovo modello standard. Cosa impossibile oltre che insopportabile. Piuttosto, di elaborare il lutto di una primazia che il maschio oggi (per fortuna) non ha più.

Occorre ammettere che siamo all’anno zero: se non è più il potere che si traduce in sesso (come ha espresso in modo così volgare Trump ai suoi compari), a quale immagine possiamo rivolgerci? Forse, possiamo cominciare a pensare che il potere è solo un pallido idolo di quel desiderio infinito che si può compiere, sempre limitatamente, e quindi senza arroganza, in ciò che ci prendiamo la responsabilità di far esistere.

Per le donne, si tratta di completare una transizione: la lunga e difficile marcia verso l’emancipazione è andata avanti e ha registrato tanti successi. In un mondo in cui gli uomini possono essere ridotti a meri produttori di seme, la donna acquista strutturalmente una nuova centralità. Ma qui sta il punto: per le donne – e Hillary per prima – non è più questione di puntare a un’assimilazione del modello maschile, di dimostrare chi sono i «veri uomini».

Si tratta, più ambiziosamente, di portare un contributo per correggere le storture di un modello di convivenza che affonda le radici nell’archetipo maschilista-patriarcale. Il tesissimo, a volte goffo, confronto Trump-Hilary parla di questo: ciò di cui abbiamo bisogno è una nuova simbolizzazione del maschile e del femminile che, nel processo di negoziazione di genere, riconosca il contributo femminile – che al maschio non è affatto estraneo – a tessere i legami tra le generazioni, includere, prendersi cura. Non nell’ordine subordinato della famiglia patriarcale, ma come complemento simbolico a ciò che drammaticamente manca al nostro mondo.

(27esimaora, 17 ottobre 2016)

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