27 Febbraio 2017
Corriere della Sera

«L’arte di ascoltare imparata dalla nonna» Cristina e la Casa per battere la violenza

di Paolo Di Stefano

Cristina Carelli, coordinatrice della Casa di accoglienza delle donne maltrattate, a Milano, nella sede di Porta Romana. Ha studiato Matematica, poi ha scelto le scienze dell’educazione. Prima ha lavorato con i bambini disabili nelle scuole, poi in comunità con le donne che hanno subito violenze. La Casa è il primo centro antiviolenza in Italia
Cristina Carelli, coordinatrice della Casa di accoglienza delle donne maltrattate, a Milano, nella sede di Porta Romana. Ha studiato Matematica, poi ha scelto le scienze dell’educazione. Prima ha lavorato con i bambini disabili nelle scuole, poi in comunità con le donne che hanno subito violenze. La Casa è il primo centro antiviolenza in Italia

«C’è stato un fatto doloroso che mi ha messo in contatto con il dolore delle persone. Non mi va di raccontarlo, avevo 26 anni e sono cambiata». Cristina Carelli ricorda quella svolta con un sorriso malinconico che qua e là si accende di luce. «Ho cominciato a studiare matematica, ho fatto tanti esami, ero una ragazza con la testa tra le nuvole, ma sin da piccola sono sempre stata l’avvocata delle cause perse, era quella la mia prima aspirazione». Dall’astrazione della matematica al lavoro nel sociale il passo è lungo ma tutt’altro che impossibile. Infatti Cristina lo compie presto e di slancio: «Mi sono messa a studiare scienze dell’educazione per affiancare le persone nella quotidianità: ho iniziato dai minori disabili, con difficoltà di linguaggio o autistici». Per un decennio — erano gli anni Novanta — lavora in comunità e collabora ai progetti di integrazione delle scuole per l’infanzia: «I bambini mi hanno insegnato a creare dei ponti tra persone apparentemente separate da enormi barriere. Mi ricordo che in una classe c’era un bambino che muoveva solo le braccia e non riusciva a parlare ma aveva una vitalità eccezionale: con i suoi compagni, che avevano tre anni come lui, siamo riusciti a inventare delle incredibili strategie di gioco adagiandolo su un tappeto per il divertimento suo e degli altri». Oggi Cristina coordina la Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate, un luogo storico di Milano nato nel 1986, primo centro antiviolenza in Italia. La nuova sede, in Porta Romana, si affaccia sul cortile interno di un vecchio palazzo ben tenuto: Le parole non bastano, recita un manifesto appeso su una parete. Un lavoro politico, lo chiama, intendendo per politica l’impegno a cambiare la società attraverso le singole storie che incontra: «Non ho mai fatto pace con la violenza e credo che ogni percorso verso la libertà rimetta in equilibrio la terra».
La guida di nonna Lucia

Un papà dirigente d’azienda, una madre casalinga e «femminista ante litteram»; ma soprattutto è stata la nonna materna, Lucia, la sua guida morale: «Era molto povera, aveva fatto la quinta elementare, ha lavorato a Crema come sarta, riconosceva la poesia di un fiorellino nel cemento e mi portava con sé per andare a vederlo. Quando studiavo al liceo, mi chiedeva di parlarle di letteratura e di filosofia… Era una donna curiosa, giusta, accogliente, capace di ascoltare le confidenze delle nipotine: mie e di mia sorella». La vita di Cristina Carelli, che si definisce femminista della seconda ondata e rimane fedele al pensiero della differenza di genere, è per le donne: «Lavorare ai diritti e al rispetto, che non sono ancora riconosciuti, quando si parla di violenza sulle donne, se ne parla con troppe ipocrisie maschili». Per quattro anni ha affiancato nella quotidianità le madri ospitate nelle case a indirizzo segreto (oggi gli appartamenti della Casa sono 7): «Facevo assistenza alle donne con bambini, che spesso, se hanno subito violenza, non trovano abbastanza energia nel gestire la vita quotidiana, sono troppo concentrate sulla protezione fisica di sé e dei figli e dimenticano la cura, le relazioni eccetera. Erano giovani maltrattate in famiglia, dal padre, da un fratello o da un partner. È stata l’esperienza più dura, perché tendevo a giudicare le madri, ritenendole in qualche modo responsabili della sofferenza dei figli. Solo dopo ho capito che dovevo tenermi lontana dal giudizio». Accoglienza è una parola chiave. Cristina racconta che le ragazze, in genere, arrivano da sole o accompagnate da un’insegnante: «Con loro spesso diventi una specie di figura materna sostitutiva: le loro madri sono coinvolte nel silenzio, sono minacciate e temono per la vita propria e delle persone intorno. Ma il dato che emerge sempre più è che sono tanti i ragazzini violenti, dunque è importante fare un lavoro di prevenzione nelle scuole discutendo delle relazioni, dei modelli, degli stereotipi e della doppia morale diffusa: incontrando i ragazzi delle prime superiori e cercando di metterli in gioco, capisci però che sanno fare passaggi velocissimi».
Il patto di fiducia

Undici o dodici ore di lavoro al giorno. Cristina comincia alle nove del mattino e chiude in tarda serata con una lunga camminata per attraversare la città fino a casa. Dove ci sono i libri da leggere per piacere (ultimo il diario di Doris Lessing), la poesia (leggere, ma anche scrivere versi: «Una forma di libertà e di pulizia»). E il giorno dopo, di nuovo: le urgenze, le scuole, i progetti, la gestione della Casa con 11 dipendenti e 50 volontarie. Ci sono le telefonate a cui rispondere: «Sono tante le giovani che chiamano per chiedere se quello che stanno vivendo è violenza…». Il momento più difficile, spiega Cristina, in genere è il primo impatto: «Le donne che arrivano qui spesso non parlano, sono diffidenti, aggressive, hanno vergogna, temono di essere etichettate, sono preoccupate di proteggere le loro storie. Poi, quando si sentono più rassicurate e si è stabilito una specie di patto di alleanza, valutando insieme le possibili vie d’uscita e le soluzioni di sicurezza, la loro emotività si esprime nel pianto o nei malesseri psicosomatici: lo stomaco, gli arti, il mal di testa… Il corpo è lo specchio delle loro emozioni».
Gli amici generosi

Un lavoro che potrebbe fare anche un uomo? «Impossibile, neanche un uomo molto empatico e sensibile potrebbe mai: c’è una dimensione di genere che apre le porte in entrambe le direzioni. Ho incontrato uomini eccezionali, capaci di ascolto, ma più sono sensibili e più ammettono che non sarebbero in grado di capire fino in fondo una donna maltrattata. Ho diversi amici maschi, tre in particolare, con cui condividiamo la visione della vita, sono generosi e disponibili, con loro parlo tanto del mio lavoro, e si va sempre a finire lì…». Sorride di sé più che dei suoi amici che devono, dice, «sorbirsi le mie fissazioni». Non chiedetele della famiglia, perché la famiglia di Cristina è la Casa, dove «la vita è molto condivisa». Sente la continuità con la sua famiglia d’origine, ma si dice molto critica sul familismo italiano: «Odio la retorica dei rapporti familiari, l’iperprotettività nei confronti dei propri figli e il menefreghismo rispetto agli altri: è uno scandalo, uno scandalo da cui nasce anche la violenza. Io non riesco a essere spettatrice, anche se a volte, di fronte a certe situazioni mi chiedo: chissà come ha fatto questa donna a resistere, a uscirne e a riprendersi la vita…».

(Corriere della Sera, 27 febbraio 2017)

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