21 Luglio 2015
il manifesto

L’Atene metafisica di Konstantina Kotzamani

La regista greca racconta «Washingtonia» il documentario che viene presentato in questi giorni alla Festa di cinema del Reale di Specchia

Nell’immaginazione dei più Atene è l’acropoli, l’invenzione della demo­cra­zia, i dizio­nari di greco aperti sul banco il giorno della ver­sione. Ma soprat­tutto, in que­sti tempi, è il paese a cui è rivolto lo sguardo di tutto il mondo, il banco di prova dell’Europa, le file ai ban­co­mat ed i «riots» nelle strade. Con Washing­to­nia, però, la regi­sta tren­ta­duenne Kon­stan­tina Kotza­mani ci porta lon­ta­nis­simo da que­ste imma­gini, ed anche pro­ba­bil­mente da quelle che gli stessi ate­niesi hanno della loro città. Con il suo breve docu­men­ta­rio sui gene­ris – in con­corso l’anno scorso alla Ber­li­nale Shorts e pro­iet­tato in que­sti giorni alla Festa di cinema del Reale di Spec­chia – raf­fi­gura un’Atene meta­fi­sica e rare­fatta, quasi sur­reale, abi­tata da poche anime soli­ta­rie quando il resto della città parte per le vacanze estive.

«L’idea ini­ziale, infatti — spiega la regi­sta – era creare un ritratto stra­va­gante e eso­tico di Atene abban­do­nata durante l’estate bol­lente. Volevo fil­mare delle loca­tion che mi ricor­das­sero l’Africa, il con­ti­nente del mio pro­ta­go­ni­sta». Il per­so­nag­gio prin­ci­pale e voce nar­rante di Washing­to­nia è infatti un migrante afri­cano che lavora in una pastic­ce­ria da cui un’anziana signora ordina ogni sera la stessa torta. «C’è un trucco in Washing­to­nia – con­ti­nua Kotza­mani – il pro­ta­go­ni­sta è un uomo che viene dall’Africa, che parla di Atene a sua volta fil­mata come se fosse l’Africa. Volevo gio­care con gli ste­reo­tipi che la cul­tura occi­den­tale si è creata sul con­cetto di estra­neità». Il suo migrante, inol­tre, cono­sce tutti i segreti delle palme. Quelle stesse palme impor­tate in gran numero nella capi­tale greca durante le olim­piadi del 2004 per ren­derla più eso­tica e che oggi sono state quasi tutte ster­mi­nate dal pun­te­ruolo rosso. Tutte ad ecce­zione di una varietà, la Washing­to­nia del titolo, che come spiega la voce nar­rante è tal­mente sot­tile che il suo cuore stri­min­zito non è ambito nean­che dal ter­ri­bile insetto infestante.

Ed il cuore, in senso let­te­rale e meta­fo­rico, è il tema por­tante di Washing­to­nia, aperto dalle imma­gini di due giraffe di cui in Africa si dice, spiega ancora il migrante senza nome, che il bat­tito del loro cuore quando si appog­giano al suolo per ripo­sare regoli la vita di tutti gli altri ani­mali. Ma nel pieno dell’estate il bat­tito non è più udi­bile, e la vita si arre­sta in attesa del suo ritorno. Que­sti ani­mali eso­tici, spiega la regi­sta, le sono giunti in sogno: «men­tre lavo­ravo al film ho fatto un sogno molto intenso in cui una giraffa, cer­cava di entrare in casa mia dalla fine­stra e si stava impos­ses­sando della mia mente. In seguito mi sono docu­men­tata sull’argomento, e così è nata la sto­ria sui grandi e pic­coli cuori».

Il cuore pic­colo, nel film, è anche quello di una madre che sem­bra amare più il suo bar­bon­cino che il figlio ado­le­scente, o quello svuo­tato dell’anziana signora che ordina la torta ogni sera e piange ancora oggi un amore che l’ha abban­do­nata. Tutti que­sti per­so­naggi si muo­vono tra fic­tion e realtà: «nes­suno di loro è un attore e girando non abbiamo mai fatto delle prove, per cui in un certo senso è come se reci­tas­sero se stessi», sot­to­li­nea la regi­sta. «Men­tre cer­cavo le loca­tion osser­vavo anche le per­sone, e pro­vavo a raf­fi­gu­rarmi che per­so­nag­gio sarebbe andato bene per ognuna di esse. L’unico di cui ero certa sin dal prin­ci­pio è il pro­ta­go­ni­sta, che volevo por­tasse con sé delle qua­lità del con­ti­nente afri­cano. L’abbiamo tro­vato nel parco di un quar­tiere ate­niese dove vive la mag­gior parte dei migranti: si chiama Piazza America».

Docu­men­ta­rio è quindi una defi­ni­zione molto restrit­tiva per que­sto breve lavoro che pro­cede più che altro per libere e sug­ge­stive asso­cia­zioni di idee: «sup­pongo che il reale inte­resse del pro­cesso di rea­liz­za­zione di que­sto film sia rac­chiuso nella sua strut­tura meta­fi­sica. In assenza di qual­siasi sce­neg­gia­tura, ho lavo­rato solo con le imma­gini, le melo­die ed i sensi, come ad esem­pio la per­ce­zione del calore». Così con Washing­to­nia Kon­stan­tina Kotza­mani rea­lizza un affre­sco sul cuore di un’Atene deso­lata ed estra­nea ad ogni imma­gine pre­co­sti­tuita che abbiamo di essa, spe­cial­mente in que­sta lunga estate calda in cui la città ancora attende che il cuore della giraffa torni a far sen­tire il suo battito.

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