2 Novembre 2013
Donne, Chiesa, mondo - Inserto mensile de L'Osservatore Romano

Latte, ruota e libro

La santa del mese raccontata da Luisa Muraro

«La santa Caterina era figlia d’un re». Così cominciava una filastrocca scherzosa che cantavamo da ragazze. Raccontava il conflitto tra Caterina d’Alessandria e suo padre pagano. In realtà, cioè nella leggenda ufficiale (non c’è storia documentata), il conflitto che la porta al martirio è con l’imperatore romano Massimino. Ma sempre di uomini che fanno la legge si tratta.

Le origini regali sono un attributo metaforico delle donne che danno prova d’indipendenza simbolica, quelle che Annarosa Buttarelli chiama «sovrane» in un libro che ha proprio questo titolo. Di Guglielma Boema dicevano che era figlia e sorella di re (e forse era vero alla lettera); ascendenze regali Margherita Porete attribuisce simbolicamente alle «anime annientate» e la poetessa Emily Dickinson a sé.

L’iconografia conferma le origini regali di Caterina, che tra i santi è riconoscibile per alcuni simboli che sono la corona in testa, un libro in una mano, spesso la palma del martirio nell’altra, e una ruota ai suoi piedi.

L’imperatore l’aveva condannata alla tortura della ruota, che miracolosamente non funzionò; ordinò allora il taglio della testa che si staccò dal corpo facendo sgorgare non sangue ma latte. Lei divenne così la patrona dei fabbricanti di ruote e delle donne che allattano. E il libro? L’imperatore tentò di riportarla al culto degli dei e le mandò a questo scopo cinquanta filosofi, ma fu lei a convincere loro della superiorità del messaggio cristiano, diventando così la patrona dei filosofi. Latte, ruota, libro, davvero una magnifica costellazione di simboli.

Di questa grande santa della Chiesa orientale molte cose evocano la figura storica di Ipazia d’Alessandria, filosofa neoplatonica martirizzata nel 415 da un gruppo di cristiani fanatici al tempo del vescovo e padre della Chiesa Cirillo, che la considerava con un’ombra di gelosia per il grande seguito di cui godeva. Alcuni hanno avanzato l’ipotesi che santa Caterina d’Alessandria sia una figura creata per riparare e coprire questo misfatto. Non ci sono prove. D’altra parte non ci sono prove nemmeno dell’esistenza storica della martire cristiana. È per questo che il suo culto è stato limitato ma, fortunatamente, non soppresso.

Il vantaggio delle figure leggendarie è che si offrono alla nostra fantasia senza preclusioni. Caterina è stata per secoli una presenza viva nella pietà popolare e un esempio di grandezza femminile. Quando, dall’Oriente si diffusero in Occidente i racconti dei pellegrini e dei crociati, l’Europa si popolò di donne di nome Caterina, e di cappelle o chiese con lo stesso titolo.

Nella basilica di San Clemente in Roma a santa Caterina è intitolata una cappella affrescata da Masolino da Panicale. Fra le chiese, la più imponente è forse la basilica di Galatina, nel Salento. Il ciclo pittorico a lei dedicato comincia mostrandola che entra, seguita da altre donne, nel luogo di un culto pagano, alza il braccio indicando il cielo e predica; gli adoratori degli idoli — alcuni vestiti da prelati! — non le prestano attenzione ma l’imperatore sì: dal trono punta un dito sulla contestatrice e i due, entrambi incoronati, si fronteggiano in primo piano, a destra e a sinistra del quadro.

Ci sono anche testimonianze scritte. Si legge, negli atti del processo contro la “setta” guglielmita, ai tempi di Papa Bonifacio VIII, che le devote di Guglielma aggiravano i divieti dell’Inquisizione venerando la loro santa sotto le sembianze di santa Caterina che facevano dipingere in questa o quella chiesa della città.

Arrivando in Europa Caterina non perse il suo tratto di donna libera capace di disobbedire agli uomini per obbedire a Dio. Il documento più impressionante di ciò lo offre il processo di condanna di Giovanna d’Arco. Santa Caterina, insieme a santa Margherita, anche questa venuta dall’Oriente, è una presenza costante al fianco di Giovanna, accusata di essere una strega e un’eretica: «Santa Caterina ha detto che verrà in mio aiuto», «Santa Caterina mi risponde subito», «Su questo mi consiglierà santa Caterina» e così via.

Nelle prime udienze, lei parla delle voci che le trasmettono la volontà divina, ma senza dargli un nome. L’inquisitore la incalza, vuole che dica se era la voce di un angelo, di un santo o di una santa, oppure «quella di Dio senza intermediari». Formula insidiosa, quest’ultima, del che la giovane donna — aveva diciannove anni — sembra avvertita, perché a questo punto dà al giudice l’informazione richiesta: «Erano le voci di santa Caterina e di santa Margherita, che hanno il capo cinto di belle corone, ornate e preziose». Aggiunge: «Dio mi ha permesso di rivelarlo», spiegando così la sua passata reticenza.

Il testo del processo rappresenta un documento, storico e spirituale insieme, stupefacente. Illustra un conflitto che sembra fatalmente impari, tutto essendo dalla parte del tribunale, autorità, esperienza, dottrina, potere, e tutto invece che finisce per sbilanciarsi dall’altra parte, di una diciannovenne che difende il suo onore di cristiana e la sua libertà di coscienza.

A questo servono le sante e i santi, suppongo.

Filosofa e scrittrice, Luisa Muraro ha insegnato a lungo all’università di Verona. È stata tra le fondatrici della Libreria delle Donne di Milano e della comunità filosofica Diotima. È autrice, tra gli altri, di Il pensiero della differenza sessuale (1987), L’ordine simbolico della madre (1991), Oltre l’uguaglianza. Le radici femminili dell’autorità (1994), Lingua materna, scienza divina. Scritti sulla filosofia mistica di Margherita Porete (1995), Le amiche di Dio (2001), Il Dio delle donne (2003), Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna (2011), Dio è violent (2012), Autorità (2013).


(Donne, Chiesa, mondo – Inserto mensile de L’Osservatore Romano – 2/11/2011)

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