18 Giugno 2016

L’autoriforma gentile della scuola. Soggettività in movimento che mi trasforma – La autorreforma gentil de la escuela. Subjetividad en movimiento que me transforma



di Julio Hizmeri F.



Julio Hizmeri Fernández vive in Cile, a Chillán, e nel marzo di quest’anno ha discusso presso l’Università di Barcellona la sua tesi di dottorato in pedagogia – relatore e tutor Dr. José Contreras Domingo – dal titolo: “Otro modo de estar en la relación educativa. La investigación del movimiento de autorreforma italiana de la escuela como una experiencia de trasformación personal”. (Un altro modo di essere nel rapporto educativo. La ricerca del movimento per la autoriforma italiana della scuola come un’esperienza di trasformazione personale). Volentieri ospitiamo l’articolo che ci ha mandato per il sito.



María Zambrano ha detto che «la vita non ha parti, ma luoghi e volti», ed è forse in questo rapporto che è cominciato a cambiare il mio modo di intendere la pedagogia e, anche, un modo differente di abitare la scuola.

Sono un giovane professore uscito dalla formazione docente universitaria talmente pieno di ideali educativi che presto cominciai a sentire il malessere generato dalla mancanza di sintonia tra la mia esperienza vissuta nella scuola e quelle idee accademiciste in cui mi ero formato. La formazione universitaria tradizionale permette questo lusso al limite dell’ozioso e ciascuno, ciascuna – come la favola dei Tre porcellini – va costruendo la sua immagine di scuola desiderata, del maestro o della maestra che vuole essere nella scuola e delle e degli studenti con cui convivrà. Kafka ci avverte che «Non si impara la vita in mare facendo esercizi in una pozzanghera, al contrario, un eccesso di allenamento in una pozzanghera può renderci incapaci di essere marinai». Insegnavo lingua a studenti tra i dodici e i diciotto anni. Sei anni e un mare separavano gli uni e gli altri. Le calme acque dei più grandi contrastavano con le mareggiate dei più piccoli di fronte alle mie pretese. Più vicino agli ultimi, in procinto di uscire dalla scuola regolata, mi sentivo goffo in relazione con i più piccoli. Forse loro non si erano tanto adattati alla grammatica scolastica e con la loro inappellabile fedeltà a se stessi, a se stesse, intorpidivano la mia “buona volontà”.

Credo che con il percorso formativo tradizionale che va dalla scuola regolata all’università possano svilupparsi certi modi di vedere e di pensare, di sentire e di dire che vanno creando una immagine del mondo scolastico come lontano dall’esperienza. Sembrerebbe essere come se con il tempo il percorso educativo mi avesse spinto a prendere distanza dal vissuto, lasciando dietro un ordine primario dimenticato. Uno sguardo di sorvolamento allontanato dalla mia esperienza, un pensiero incapace di decifrare il mio sentire e un linguaggio in cui parola e corpo mi si mostravano disuniti, alimentavano il mio atteggiamento critico e il mio intento riformatore. Così, tutta la realtà doveva cambiare per potervi avere un posto e il mio presente nella scuola non era che la premessa di qualcosa di meglio che sempre sarebbe successo in futuro. Pertanto vivevo nella scuola senza starci pienamente né apprezzare ciò che in essa succedeva ogni giorno; soprattutto, trascuravo la relazione con le altre e gli altri. So che trascurare la vita è sempre trascurare quelle e quelli con cui condividiamo tale vita. E la distanza dal vissuto è sempre distanza relazionale.

In questa maniera, quanto più maturavo la mia postura critica tanto più inadeguata mi sembrava la scuola in cui stavo e tutto pareva pronosticare che il futuro sarebbe stato un infinito esercizio di critica e malessere, di altra critica e altro malessere, quando improvvisamente senti dire che ci sono buone notizie sulla scuola. Fu proprio a partire dalla lettura del libro Buone notizie dalla scuola. Fatti e parole del movimento di autoriforma, a cura di Antonietta Lelario, Vita Cosentino e Guido Armellini, raccomandato da alcune professoresse (Remei Arnaus e Asunción López) e dal mio maestro (José Contreras) del gruppo di ricerca ESFERA della Facoltà di Educazione della Università di Barcellona (legato a DUODA). Un titolo così non lascia indifferente nessuno, soprattutto un uomo dal volto freddo e accigliato che vedeva nella scuola solo ciò che è impedito o negato, cioè le cattive notizie. La lettura, all’inizio un po’ sdrucciolevole perché diversa dal solito, con un linguaggio sensibile andava restituendo realtà alla scuola del giorno per giorno, facendo apparire la sua qualità, la qualità delle relazioni. Il libro rendeva conto del secondo incontro nazionale del Movimento di autoriforma italiano della scuola, e attraverso fatti e parole metteva in circolazione pratiche di eccellenza, «le buone notizie», che esistono e che non dipendono da modelli esterni, bensì dalle pratiche e dai saperi di coloro che abitano la scuola in carne e ossa. Nel libro, la professoressa Anna Maria Piussi segnala che «il movimento di autoriforma parte dal riconoscimento che esistono già, nella scuola, elementi di qualità che si attivano quando, alla sfiducia in sé e negli altri e alla delega all’esterno dell’iniziativa del cambiamento, si sostituisce  la fiducia nella proprie e altrui possibilità, un pensare e un agire a partire dalla propria esperienza concreta e vivente, in relazione significativa con altre e con altri». Ossia, non erano le teorie astratte, distanti dal tempo e dallo spazio della relazione educativa, ma l’esperienza vissuta il luogo  da cui nasceva la capacità di offrire un giudizio su ciò di cui la scuola ha bisogno, senza aspettare i mitici interventi riformatori dall’alto né opporsi in modo nichilista davanti a qualunque possibilità di cambiamento. Così, in poco più di trecento pagine, con intelligenza contagiosa si metteva in moto la verità soggettiva di chi partecipava all’incontro. Queste verità mi spinsero ad allontanarmi dalla postura critica. Ciò che ne seguì fu il conoscere esperienze del movimento grazie a donne come Anna Maria Piussi, Vita Cosentino, Giannina Longobardi, Chiara Zamboni, Antonia de Vita, Cristina Mecenero e Luisa Muraro: dall’Autoriforma della scuola passai all’Autoriforma dell’università, da questa al pensiero della comunità filosofica femminile Diotima e alla Pedagogia della differenza sessuale… e tutto mi lasciava l’impressione che le esperienze riferite erano la cosa più sensata che avessi mai ascoltato sull’università e la scuola, sulle bambine e i bambini e sul mestiere di educare. Dalle mie letture dei libri e atti degli incontri nazionali del movimento, per esempio, ho apprezzato il gesto politico pedagogico del quinto incontro chiamato “Le maestre e il professore”, dove educatrici e maestre di scuola “salgono in cattedra” per dar conto delle loro esperienze maestre. Tra loro, una maestra di scuola chiamata Maria Cristina Mecenero nominerebbe il suo compito come un saper “stare vicino all’inizio”, una cosa che mi ha particolarmente colpito. Lei – come tante altre maestre comuni e correnti – si collocava agli antipodi della distanza relazionale che avevo sperimentato.

Tutto mi mostrava un modo di muoversi nel mondo creando mondo, con parole della professoressa Anna Maria Piussi, che non significava negare la realtà dal di fuori, né affermarla ripetitivamente a spese della nostra libertà, bensì un modo di stare nella realtà che cambia praticando la libertà e vivendola in modo creativo e relazionale. Si è trattato di un movimento di riforma gentile, dall’interno della scuola, per curare ciò che vi è più vivo e funziona meglio, cioè per salvaguardare quei momenti vitali nel rapporto tra insegnanti e studenti in cui si avverte che l’insegnamento apprendimento porta a una crescita personale. Così, il movimento di autoriforma ha riattivato una corrente amorosa che ho potuto notare sensibilmente nel bel video documentario L’amore che non scordo. Questo docufilm, che narra il lavoro di quattro maestre e un maestro comuni italiani del nostro tempo per mostrare di che qualità è fatta la scuola, mi fece ricordare la prima scuola dimenticata, non la scuola matrigna vissuta in seguito ma la scuola della prima maestra che ci insegnò che lì si poteva stare come a casa, che si poteva stare bene.

Oggi, come padre e professore, credo che la radice dell’educazione stia nello stesso luogo. È molto diverso dire, per esempio, che il bambino nasce buono, come Rousseau, «Emilio è orfano. Non importa che abbia padre e madre», rispetto a dire che il bambino o la bambina nascono amorosi; che lo debbano alla loro relazione con la madre, il padre o chi si faccia tale; che si debba all’amorosità di questa relazione che ho appreso dalla pedagogia della differenza sessuale, che ho sperimentato come padre e ho ammirato nella relazione tra la mia compagna e nostra figlia. Credo che l’educazione delle figlie e dei figli e l’educazione scolastica derivino dalla medesima esperienza: il lavoro umano di aver cura e insegnare alle e ai più nuovi a vivere in questo mondo. E come ci dice Gabriela Mistral, «l’amore insegna più cammini a colei che insegna di quanto non faccia la pedagogia».

Recentemente sono stato invitato a dare una conferenza nell’università cilena in cui mi ero formato come docente. Lì raccontai la mia esperienza di trasformazione personale a partire dal Movimento di autoriforma della scuola italiana. Vita Cosentino ha detto che l’autoriforma, più che un movimento tradizionale è soggettività in movimento, e senza dubbio con gli interventi di quel giorno ho potuto sentire quel movimento interiore che nasce da esperienze che non appena sono ascoltate risuonano risvegliando un certo ordine primario dimenticato che – felicemente lo so – può arrivare a trasformare una volta per tutte la nostra maniera di stare nel mondo, il nostro modo di stare nella scuola.

(Traduzione dallo spagnolo di Clara Jourdan, www.libreriadelledonne.it, 18 giugno 2016)



La autorreforma gentil de la escuela. Subjetividad en movimiento que me transforma

Por Julio Hizmeri F.

María Zambrano ha dicho que «la vida no tiene partes, sino lugares y rostros» y, quizás, sea en esta relación cuando comenzó a cambiar mi modo de entender la pedagogía y, también, un modo diferente de habitar la escuela.

Soy un joven profesor que egresé de la formación docente universitaria tan lleno de ideales educativos que pronto comencé a sentir el malestar que generaba la falta de sintonía entre mi experiencia vivida en la escuela y aquellas ideas academicistas en las que me había formado. La formación universitaria tradicional permite este lujo incluso hasta el más ocioso y cada uno, cada una —como la fábula de Los tres cerditos— va construyendo su imagen de escuela deseada, del maestro o la maestra que quiere ser en ella y de las y los estudiantes con los que convivirá. Kafka nos advierte que «No se aprende la vida en el mar con ejercicios en un charco y, en cambio, un exceso de entrenamiento en un charco puede incapacitarnos para ser marineros». Daba clases de lengua a estudiantes entre los doce a dieciocho años. Seis años y un mar distanciaban a unos y a otros. Las sosegadas aguas de los más grandes contrastaban con las marejadas que a mis pretensiones daban los más pequeños. Más cerca de los últimos, a punto de egresar de la escuela reglada, me sentía torpemente en relación con los más pequeños. Quizás, éstos no estaban tan adaptados a la gramática escolar y entorpecían con su inapelable fidelidad a sí mismos, a sí mismas, mi «buena voluntad».

Creo que con el recorrido formativo tradicional que va desde la escuela reglada a la universidad pueden desarrollarse ciertos modos de mirar y de pensar, de sentir y de decir que van creando una imagen del mundo escolar alejado de la experiencia. Pareciese ser como si con el tiempo el recorrido educativo me hubiese empujado a tomar distancia con lo vivido, dejando detrás un orden primario olvidado. Una mirada de sobrevuelo alejada de mi experiencia, una pensamiento incapaz de descifrar mi sentir y un lenguaje en que palabra y cuerpo se me mostraban desunidos, alimentaban mi actitud crítica y mi talante reformador. Así, toda la realidad debía cambiar para ocupar un lugar en ella y mi presente en la escuela no era sino la promesa de algo mejor que sucedería siempre en el futuro. Por lo tanto, vivía en la escuela sin estar plenamente en ella ni apreciar lo que en ella ocurría diariamente; sobre todo, descuidaba la relación con las y los demás. Sé que el descuido de la vida es siempre el descuido de aquellas y de aquellos con quienes compartimos esa vida. Y la distancia con lo vivido es siempre distancia relacional.

De este manera, a medida que maduraba mi talante crítico más inadecuada me parecía la escuela en la que estaba y todo parecía augurar que el futuro sería un infinito ejercicio de crítica y malestar, de más crítica y más malestar, cuando de pronto oyes decir que hay buenas noticias sobre la escuela. Justamente, fue a partir de la lectura del libro «Buenas noticias de la escuela. Hechos y palabras del movimiento de autorreforma», al cuidado de Antonietta Lelario, Vita Cosentino y Guido Armellini, y recomendado por unas profesoras (Remei Arnaus y Asunción López) y mi maestro (José Contreras) del grupo de investigación ESFERA de la Facultad de Educación de la Universidad de Barcelona (ellas también vinculadas a DUODA). Un título así no deja indiferente a nadie, sobre todo a un hombre con rostro frío y ceño fruncido que veía en la escuela sólo lo que está impedido o negado, es decir, las malas noticias. La lectura, al comienzo un tanto escurridiza por lo distinta a lo acostumbrado, con un lenguaje sensible iba restituyendo realidad a la escuela del día a día haciendo aparecer su calidad, la calidad de las relaciones. El libro daba cuenta del segundo encuentro nacional del Movimiento de autorreforma italiana de la escuela y, a través de hechos y palabras, ponía en circulación prácticas de excelencia, «las buenas noticias», que existen y que no dependen de modelos externos, sino de las prácticas y de los saberes de quienes habitan la escuela en carne y hueso. En él, la profesora Anna Maria Piussi señala que «el movimiento de autorreforma parte del reconocimiento de que en la escuela ya existen elementos de calidad que se activan cuando se sustituye la desconfianza por la confianza en las propias posibilidades y en las ajenas, lo cual permite sustituir la actitud de delegar fuera la iniciativa del cambio por un pensar y un actuar a partir de la propia experiencia concreta y viviente, en relación significativa con otras y con otros». O sea, no eran las teorías abstractas, distantes del tiempo y del espacio de la relación educativa, sino la experiencia vivida el lugar desde donde nacía la capacidad de ofrecer un juicio sobre lo que la escuela necesita, sin esperar las míticas intervenciones reformadoras desde lo alto ni oponerse al modo nihilista ante cualquier posibilidad de cambio. Así, en más de trescientas páginas, con inteligencia contagiosa se ponía en movimiento la subjetiva verdad de quienes asistieron al encuentro. Estas verdades me instaron a alejarme del talante crítico. Lo que siguió fue conocer experiencias del movimiento gracias a mujeres como Anna Maria Piussi, Vita Cosentino, Giannina Longobardi, Chiara Zamboni, Antonia de Vita, Cristina Mecenero y Luisa Muraro: de la Autorreforma de la escuela pasé a la Autorreforma de la universidad, de ella al pensamiento de la comunidad filosófica femenina Diótima y a la Pedagogía de la diferencia sexual… y todo me iba dejando la impresión de que las experiencias relatadas eran lo más sensato que había escuchado nunca sobre la universidad y la escuela, sobre las niñas y los niños y sobre la tarea de educar. De mis lecturas de los libros y actas de los encuentros nacionales del movimiento, por ejemplo, aprecié el gesto político pedagógico del quinto encuentro llamado «Las maestras y el profesor», donde educadoras y maestras de escuela «suben a la cátedra» para dar cuenta de sus experiencias maestras. Entre ellas, una maestra de escuela llamada María Cristina Mecenero nombraría su oficio como un saber «estar cerca del comienzo», lo cual llamó especialmente mi atención. Ellas —como tantas otras maestras comunes y corrientes— se ubicaba en las antípodas de la distancia relacional que había experienciado.

Todo me mostraba un modo de moverse en el mundo creando mundo, en palabras de la profesora Anna Maria Piussi, que no significaba negar la realidad desde fuera, ni afirmarla repetitivamente a costa de nuestra libertad, sino un modo de estar en la realidad que cambia practicando la libertad y viviéndola creativa y relacionalmente. Se ha tratado de un movimiento de reforma amable, desde el interior de la escuela, para atender a aquello que es más vivo en ella y funciona mejor, es decir, para salvaguardar aquellos momentos vitales en la relación entre enseñantes y estudiantes en los que se advierte que la enseñanza aprendizaje lleva a un crecimiento personal. Así, el movimiento de autorreforma ha reactivado una corriente amorosa que pude apreciar sensiblemente en bello video documental L’amore che non scordo. Este video documental, que narra el oficio de cuatro maestras y un maestro corrientes italianos de nuestro tiempo para mostrar de qué calidad está hecha la escuela, me hizo recordad la primera escuela olvidada, no la escuela madrastra que viví después, sino la escuela de la primera maestra que nos enseño que allí se podía estar como en casa, que se podía estar bien.

Hoy, como padre y profesor, creo que la raíz de la educación están en el mismo lugar. Es muy diferente decir, por ejemplo, que el niño nace bueno, como Rousseau, «Emilio es huérfano. No importa que tenga padre y madre» a decir que el niño o la niña nacen amorosos; que deben a su relación con la madre, al padre o quien haga de tal; se deben a la amorosidad de esa relación que he aprendido de la pedagogía de la diferencia sexual, que he experimentado como padre y he admirado en la relación entre mi compañera con nuestra hija. Creo que la educación de las hijas y de los hijos y la educación escolar derivan de la misma experiencia: la tarea humana de cuidar y enseñar a las y los más nuevos a vivir en este mundo. Y como nos dice Gabriela Mistral, «El amor enseña más caminos a la que enseña que la pedagogía».

Recientemente he sido invitado a dar conferencia en la universidad chilena donde me formé como docente. Allí relaté mi experiencia de transformación personal a partir del Movimiento de autorreforma de la escuela italiana. Vita Cosentino ha dicho que la autorreforma, más que un movimiento tradicional, es subjetividad en movimiento y, sin duda, con las intervenciones de aquel día pude sentir ese movimiento interior que nace de experiencias que, tan pronto como son escuchadas, resuenan despertando cierto orden primario olvidado que —felizmente lo sé— puede llegar a transformar de una vez para siempre nuestro manera de estar en el mundo, nuestro modo de estar en la escuela.

(www.libreriadelledonne.it, 18 giugno 2016)

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