La visione di indirizzo spetta all’esecutivo. Ma nell’attesa, il parlamento può lavorare. Invece l’indecisione del Pd a collaborare con il M5S denuncia l’incapacità di concepire la politica slegata dagli interessi di partito. Si potrebbe provare a cogliere l’occasione
Le camere dunque potrebbero benissimo formare le commissioni permanenti (costituzionalmente necessarie per l’esame delle leggi), con una composizione che si limiti a rispecchiare proporzionalmente il peso numerico dei singoli gruppi parlamentari (altra condizione imposta dalla Costituzione), salvo, una volta formato il governo, ritornare (o, volendo, anche non) alla prassi che le vuole rispondenti alla «geografia politica del governo», come dice Manzella (una prassi che si somma a quella generale filosofia «maggioritaria» che, negli ultimi anni, nelle camere si è tradotta nel totale stravolgimento di tradizionali regole a garanzia delle minoranze, e a cui risale lo svuotamento, da tutti lamentato, del ruolo dell’organo parlamentare, l’unico nel nostro ordinamento, non lo si scordi, direttamente rappresentativo del popolo).Il punto dunque non è se il parlamento può lavorare in assenza di un nuovo governo nella pienezza delle sue funzioni di indirizzo politico, ma riguarda quale significato assumerebbe l’avviare questa ipotesi. Il soggetto politico necessario a realizzarla è una maggioranza assoluta in ciascuna camera, che dispone del potere di porre il regolamento, modificarlo e derogarlo o in generale del potere di plasmare prassi e convenzioni parlamentari.
Questa maggioranza assoluta potrebbe essere offerta da Pd e Sel insieme al M5S. Da parte del Pd-Sel, dunque, accedere a questa ipotesi significherebbe dire: siccome c’è un’altra forza disposta a farlo, rendo possibile che il parlamento discuta, voti e approvi alcune cose (norme anticorruzione, interventi nell’economia, o legge elettorale: alcune cose) perché è così vero che quelle cose, in sé e per sé, mi premono talmente tanto che addirittura le metto avanti alla definizione della complessiva scacchiera dei poteri consacrata nel governo (e nella presidenza della Repubblica) o di quanto potrebbero costarmi nel muovermi in quella scacchiera. Le faccio perché mi sembrano proprio buone, indipendentemente da che potrebbero piacere o meno a un mio alleato di domani. Personalmente, ci vedrei uno scarto importante da una precondizione, vorrei dire un archetipo, che avvolge non solo e non tanto la prassi parlamentare, ma l’intero costume di un paese dove ogni decisione, la più piccola (ma nel suo piccolo importante) risalente in qualche modo alla domanda chi metto in una carica a fare cosa, non può essere decisa in considerazione prevalente di quella persona lì, di quella cosa lì, ma di come persona e cosa si inseriscono in un quadro più ampio di relazioni, forze, interessi, rapporti, pesi.
Per quanto sia convintissima che, sotto un preciso punto di vista, che dirò subito, questo tipo di valutazioni è necessario e benefico, trovo che uno scarto ben calibrato da queste prassi non cattive in sé, ma cattive in quanto troppo invasive e fini a se stesse (lo dimostra il fatto che oggi costringono l’organo rappresentativo a una paralisi della quale non si vede la fine) sarebbe un segnale, da parte del Pd, tale da generare nuova fiducia non solo e non tanto nel M5S, ma nell’elettorato che, per stanchezza verso quel tipo di prassi, lo ha abbandonato; e darebbe un senso a una invocazione di «responsabilità» spesso pronunciata.
La vera obiezione è che il governo ci vuole perché non si tratta mai di «fare» e basta, di approvare il provvedimento A B o C, ma di inserire quel provvedimento in una visione di indirizzo, in una concezione più ampia (è questo il senso importante e da salvaguardare, e in tutti i contesti, della necessità di iscrivere le scelte in un quadro di riferimento, fatto di forze concrete che si fanno portatrici di convinzioni determinate e diverse da quelle di altri). Questa visione di indirizzo, questa concezione più ampia dà la qualità dell’intervento, e lo caratterizza come scelta valutativa, opzione di merito, qualcosa di cui qualcuno porta la responsabilità e in cui testimonia se stesso. Altrimenti si cade nel metodo Dieci Saggi (o, per chi è familiare all’Università, nel metodo Anvur), per cui tutto si pesa e basta: tracciata la mediana, trovato il minimo comun denominatore (tutti vogliono rilanciare l’economia e tra le cose che pensano di fare per provarci ne pensano alcune non troppo dissimili tra loro) che cosa cambia se a farlo è Pd+PdL o Pd+M5S o Pd da solo?
Cambia moltissimo, o almeno dovrebbe cambiare moltissimo, in quello che conta in politica, e cioè nel senso impresso al singolo provvedimento (riflette una scelta a favore del lavoro o della finanza, delle classi deboli o dei poteri forti?), dal motivo per cui lo adotto, dai soggetti che ho a cuore, dai valori in cui credo, da chi io sono; senza dimenticare che il governo è decisivo anche per il modo in cui un provvedimento sarà attuato. Detto questo, si ritorna al punto di partenza, al nodo, perché allora non si può nemmeno negare che la ritrosia del Pd a lasciar partire il parlamento, a «lavorare» insieme a una forza come il M5S (che però aveva chiamato a sostenerlo al governo), finisca per rivelare, purtroppo, una indecisione proprio sul senso, sui valori, sulla visione complessiva del Pd. Al quale dovrebbe essere chiaro che la forza più sensibile alla tutela del lavoro e delle classi deboli è comunque, nel parlamento attuale, il M5S (altrimenti perché, quasi a dimostrarlo, si insiste tanto a far notare che gli elettori M5S volevano tanto l’accordo con Bersani?).
Dunque, se quelli sono gli interessi cui il Pd tiene, perché indugia? Dobbiamo pensare che se il Pd non lavora insieme al M5S prima e indipendentemente dal fare il governo insieme, è allora proprio perché nel Pd il senso da attribuire alle scelte, il valore delle cose da fare, le priorità, i programmi sono scritte nelle alleanze, anziché nella sua visione politica (sicché gli è essenziale sapere prima con chi si allea, perché da lì dipende ciò che vorrà fare)? Molto, troppo democristiano, e pericolosissimo: così si mostra la corda.
Sarebbe il caso di chiedersi se non valga piuttosto provare a cambiare le prassi, cogliendo in modo cairotico l’opportunità, che le circostanze porgono, di scrivere nelle cose un cambiamento di senso, e cioè un cambiamento rispetto a un amore sbagliato per la politica, che ha finito per subordinarla a (o confonderla con) i bene o male intesi interessi del partito, o di alleanza. Bisogna capire, e riuscire far capire, che non si tratta di sottoscrivere una anomica, antipolitica urgenza del fare, ma di rimettere la politica al centro della nostra democrazia.