20 Febbraio 2013

Le dimissioni del papa: bravo e avanti in questa direzione

di Luisa Muraro

Sulle dimissioni del papa parlerò con franchezza e rispetto, come se l’interessato fosse anche lui presente ad ascoltare. In un certo senso noi due siamo in confidenza. Quando il card. Joseph Ratzinger diventò Benedetto XVI, nel 2005, un amico mi telefonò: “Il tuo studente è diventato papa”. Lo chiamavamo così per un testo che avevo pubblicato sul Manifesto (7.8.2004) e cominciava con “Se il cardinale Ratzinger fosse un mio studente…”. Cercavo uno scambio sul tema della differenza sessuale non con lui, ovviamente, ma con quella lettera enciclica Sulla collaborazione dell’uomo e della donna che lui, il mese prima, come capo della congregazione sulla dottrina della fede, aveva sottoscritto. Io, allora, credevo che l’avesse scritta lui, poi mi hanno detto che era stata scritta da una donna cattolica, femminista e buona filosofa. A lui resta comunque il merito di averla firmata e mandata a tutti i vescovi cattolici.
Perché si è dimesso? I più hanno reagito cercando che cosa c’è sotto. Uno, il direttore dell’Internazionale, ha detto: guardiamo piuttosto cosa c’è sopra. Io direi: guardiamo nelle sue parole.
Il papa si è dimesso non perché sia oggettivamente troppo vecchio e stanco, ma perché si sente debole, ossia è soggettivamente stanco e, sicuramente anche a causa dell’oggettiva vecchiaia, non regge più tanta stanchezza. Le persone che hanno impegni e responsabilità pesanti, riconoscono il problema: se i propri sforzi vanno a vuoto, se non ci sono risultati, viene a mancare quel ritorno di forza che compensa il dispendio e riattiva le fonti interiori di energia. E questo ritorno si ha (o non si ha) a tutti i livelli indicati nel discorso delle dimissioni: fisico, psichico, spirituale e/o mentale.
Se la domanda fosse: perché questo papa ha deluso tanti? la risposta sarebbe: le aspettative erano molte e molto disparate; non poteva contentare tutti. Il problema è che lui ha deluso se stesso non arrivando a realizzare quello che pensava giusto e possibile realizzare.
Si tratta di due o tre cose principali. Una è nota: il papa si è molto esposto e si è speso invano nel tentativo di sanare lo scisma di Lefebvre, un vescovo francese che si è ribellato ai decreti del concilio Vaticano II (che è peggio che ribellarsi a un papa).
La seconda cosa l’ha indicata lui stesso. La sua dura reprimenda verso i vertici della chiesa, dopo le dimissioni, non è una novità. Quello che ha detto il mercoledì delle ceneri lo aveva detto dall’inizio, anzi prima, prima del conclave del 2005, quando faceva da “supplente” della sede resa vacante dalla morte di Giovanni Paolo II, il papa polacco. Allora, durante la via crucis, una cerimonia per ricordare la passione e morte di Gesù, disse: invece di predicare agli altri, parliamo piuttosto della sofferenza che noi infliggiamo a Cristo nella sua chiesa! E con questo noi intendeva esplicitamente o quasi: noi preti, noi cardinali, noi al sommo della gerarchia.
Non pensava solo agli abusi sessuali su minori (che lui, divenuto papa, smetterà finalmente di nascondere e coprire come si faceva prima). Tra le cose che quell’uomo credeva giusto e possibile fare, è verosimile che ci fosse anche il risanamento della curia romana. Che ora egli lascia in condizioni peggiori di come l’aveva trovata. Immaginiamo la sua terribile amarezza.
Se questa ricostruzione ha qualche fondamento, mi chiedo: in che cosa ha sbagliato il mio “studente” divenuto papa? Un difensore d’ufficio dei papi più conservatori, vaticanista dell’Espresso (sic), ha risposto: è tutta colpa degli altri, quelli che dovevano dare seguito alle sue buone intenzioni. Molto comodo! Una teologa tedesca, Dorothée B., ha risposto: non doveva accettare l’elezione, ha sbagliato nel valutare le sue capacità umane. C’è del giusto. A occhio, Joseph Ratzinger sembra rientrare in quella tipologia umana maschile che Freud disegna bene: uomini ottimi nel ruolo di numero due, che al primo posto falliscono. Ratzinger, è noto, fu un ottimo collaboratore e un fedele servitore del papa polacco.
Ma una volta che ebbe accettato di succedergli, che consigli si poteva dargli? Io, avendo l’autorità morale necessaria, gli avrei detto: “Santità, a questo punto della faccenda, lasci andare (in latino, il verbo è dimittere da cui derivano le dimissioni) il suo amico Karol e il papato di Wojtila, che il primo vada incontro al giudizio divino e il secondo, al giudizio della storia; Lei scelga come esempio e modello Giovanni XXIII, più vicino a lei come stoffa umana”.
Purtroppo, per ragioni varie, l’anticomunismo? in Vaticano la grandezza di Roncalli non ha fatto scuola. Sono prevalse logiche bizantine (mi scuso con i Bizantini) per cui, se si voleva farlo santo (era già santo vox populi), bisognava che insieme a lui lo fosse anche Pio XII e che la vox populi (televisiva) facesse altrettanto con Wojtila. Tutte complicazioni che hanno messo in difficoltà il mio studente. È solo una supposizione, d’accordo, resta però il fatto che Benedetto XVI, un giorno, inopinatamente, ha sbloccato il processo di santificazione di Pio XII. Ditemi perché mai l’ha fatto.
Come strategia del suo pontificato nei confronti dell’Europa, ha puntato sulla lotta contro il relativismo, e anche qui non ha ottenuto risultati significativi. Vorrei difendere la sua scelta: il relativismo non è il senso della relatività (come tanti credono) ma la sua assolutizzazione e finisce nel nichilismo, così come il pluralismo annega la pluralità. Impariamo da Galileo e Einstein che cos’è la relatività e come questa si accordi con la ricerca della conoscenza vera. Però quella del papa era una scelta difficile, troppo forse per uno che non sapeva scegliere l’esempio cui ispirarsi e purtroppo neanche i suoi collaboratori.
Mi faccio ridere, sto parlando come Sun-tzu, il maestro taoista che insegna come agire al generale che comanda l’esercito dell’Imperatore cinese. Più alla buona terminerò con quello che hanno detto altre e altri: con le sue dimissioni Joseph Ratzinger ha dato un bel colpo alla sacralità del suo ufficio e questo è positivo perché il culto della gerarchia e del suo capo è una forma di idolatria. Bravo! Andiamo avanti in questa direzione. Se vogliamo inginocchiarci, se c’è qualcuno su questa terra davanti al quale inginocchiarsi, il Vangelo parla chiaro, si fa davanti alle creature piccole e bisognose, non altri.

 

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