di Sara Datturi
È il settimo giorno di una rivoluzione che da Istanbul si sta progressivamente espandendo in tutta la Turchia. Tre i morti, finora, un ragazzo di 22 anni colpito alla testa ad Ankara, un altro di 20 colpito dai proiettili di plastica della polizia nel sud del paese e Abdullah investito da un taxi di fronte al Gezi Park di Istanbul. Tanti, troppi feriti (oltre 2800 secondo la ong Turkish Human Rights Association) e circa 800 arresti, dopo gli ultimi scontri di ieri pomeriggio a Ankara e la sera prima a Istanbul, che hanno visto in prima linea anche gli abitanti di uno dei quartieri più benestanti della città. Qualche incidente si è verificato a Besikstas e in seguito nei dintorni di Taksim, dove la gente è tornata a radunarsi numerosa. Intorno alle 11 di sera tutta l’area è stata irrorata da gas al peperoncino, ma ormai i manifestanti reagiscono con ironia e creatività. Si sono viste ragazze con i tacchi a spillo sfoggiare maschere antigas colorate, signori anziani con la mascherina al posto del tashbee (il rosario musulmano), bambini nel passeggino equipaggiati con occhialini da piscina.
Ieri, nonostante fosse una giornata lavorativa, la gente è tornata in piazza per ripetere il «no» a un governo che non lascia nessuna libertà di scelta ai propri cittadini. Un «no» secco alle risposte che il premier Erdogan ha dato in questi giorni di scontri. Ha definito irrilevante e futile la protesta, ha invitato alla calma, ha inveito contro Twitter ritenendolo uno dei colpevoli degli incidenti e prima di partire per una visita ufficiale in Marocco e Tunisia, ha avanzato la teoria del complotto internazionale. Ieri Erdogan si è limitato a dire che risolverà tutto al ritorno del suo viaggio, mentre il governo ha parlato con la voce più conciliante del vicepremier Bulent Arinc, che si è scusato per il comportamento violento della polizia ma solo con gli ambientalisti, la cui protesta in difesa di Gezi Park è stata «giusta e legittima», fino a che non hanno preso il sopravvento «elementi terroristi» che hanno provocato, ha detto Arinc, la risposta energica degli agenti antisommossa.
La gente a questo punto è ancora più indignata. E Taksim, che letteralmente significa «divisione», è stata ancora il punto d’incontro della miriade culturale, etnica, religiosa e politica di questa folla colorata, che vede come attrici principali le donne. Donne che non hanno paura, sono in prima linea nelle strade, di fronte ai blindati della polizia, fronteggiano gli agenti, parlano con loro, quasi sembra che li sfidino. Sono per strada sia fisicamente che moralmente. In tanti quartieri il rumore delle loro pentole, le grida dalla finestra e il click delle luci accese e spente a intermittenza sono diventati la colonna sonora di questa protesta. Donne che sfidano una società ancora fortemente maschilista, malgrado sia aumentano il numero di coloro che ricevono un’educazione e hanno un lavoro fisso. Ma le donne libertarie che vediamo in giro per Istiklal non rappresentano la situazione femminile in Turchia. Dati alla mano, il femmicidio è ancora un’emergenza in alcune zone del paese e secondo il ministro della famiglia di Ankara Fatma Sahin, dal 2009 al 2012 666 donne sono state uccise da mariti o familiari. Secondo un recente rapporto Onu il 39% delle donne turche ha subito violenze fisiche. I reati di natura sessuale sono aumentati del 400% negli ultimi 10 anni.
Ora vogliono decidere del loro futuro, unite a un’eterogeneo assortimento di gruppi e organizzazioni, tutte e tutti riuniti sotto la bandiera del «Buyun Egme!» (alzare la testa), diventato già uno slogan sulle magliette. «Voglio continuare ad alzare la testa – dice una giovane liceale – senza aver paura di cosa la gente pensa di me, vorrei poter decidere della mia educazione futura, vorrei poter decidere in cosa credere e chi diventare».
La piazza è ancora in fermento. Alle tre di mattina, il Gezi park è un’oasi di chitarre e canzoni, il sonno dei giusti piomba su una città trasformata, ancor più bella se possibile. Cammino per la strada di Istiklak che solo una settimana fa era l’incontro rapido di migliaia di occhi, il simbolo e la vetrina di una Turchia in piena crescita economica e che oggi è un insieme di slogan rivoluzionari ripresi dalla gente per esprimere la propria voglia di cambiamento. Uno dei maggiori sindacati turchi, il Kesk, con i suoi 240,000 iscritti ha indetto uno sciopero generale che è iniziato ieri e andrà avanti anche oggi, per contestare la violenza indiscriminata usata dal governo.
La sfida di questi giorni porta con sé responsabilità e tante domande. Riuscirà questa piazza a sfidare questo governo? Sarà capace di ottenere il diritto di poter manifestare le proprie idee liberamente, a essere ascoltata e integrata nel processo decisionale? Sono tutti pronti ad aspettare il ritorno di Erdogan annunciato per venerdì. Nel frattempo non si va da nessuna parte: «Devrim simdi», La rivoluzione è adesso.