7 Dicembre 2015
Corriere della sera

Le donne e 9 mesi di vita trasformati in merce. Non tutto è disponibile

di Luisa Muraro

Non esiste il diritto ad avere figli a tutti i costi. Chi lo cerca con l’utero in affitto entra in un mercato in cui la donna è messa sotto contratto con clausole varie dettate dal compratore. Definire schiave queste donne è retorica che copre il mercimonio. Viviamo in una situazione in cui il mercato ammette che si possa trasformare nove mesi della vita di una donna in merce. La cultura neo liberista si impadronisce delle conquiste femminili facendo passare il profitto per libertà di scelta.

Quarant’anni di lotte hanno sganciato le donne dalla subordinazione, trasformando i rapporti tra i sessi. L’utero in affitto non è un diritto e non è libertà. È come dire che la prostituzione è sempre una libera scelta. È menzogna. Chi si sente libera lo fa e non chiede diritti, legalizzare la prostituzione serve solo a dare garanzie agli sfruttatori.

Ci sono cose sgradevoli e contrarie alla civiltà e altre che la favoriscono. La relazione materna è una di queste ultime. Va custodita come un bene. Non sappiamo cosa può produrre nelle creature future quel «passaggio». Probabilmente man mano che la libertà femminile si rafforza si vedranno situazioni speciali che consentiranno di trasformare la relazione materna in qualcosa di nuovo. Se necessario.

Occorrono, però, garanzie di gesti fatti per amore e liberamente. Finché ci sarà l’utero in affitto è inutile farsi illusioni: passerà per donazione quella che è una compravendita. Io sostengo che abbia a che fare con l’invidia maschile della fertilità femminile. In passato hanno anche tentato grotteschi esperimenti per impiantare uteri nei loro corpi. Oggi alcuni direbbero che questa invidia può essere gratificata. Basta il denaro. Eh no. L’utero in affitto contrasta con lo spirito della civiltà europea. Di una civiltà che non vuole la vendita di organi né di altro materiale del vivente. Ma la donazione. Quello è lo spirito della legge. Adesso ci chiediamo se questa etica possa essere trasferita anche alla maternità, in forma di utero di una donna che lo mette liberamente a disposizione di altre. I punti su cui dobbiamo interrogarci sono diversi. Deve essere un dono, e la gratuità deve essere certa, come per il sangue e gli organi, certificata da un’autorità affidabile.

Non basta: va prevista la possibilità che la donante possa cambiare idea. Portare in grembo una creatura, è risaputo, sviluppa nella donna una relazione così profonda che perfino il distacco del parto può metterla in difficoltà.

Dove stanno andando ora i compratori di uteri? Nei Paesi dove il contratto è una finta perché lei non potrà tirarsi indietro, garantiscono per lei mariti, fratelli, padri e anche madri, solitamente poveri.

I sacrosanti desideri di maternità e paternità di donne e uomini non fertili possono essere appagati, ma a certe condizioni. Ci sono limiti anche alla scelta di donne che si sentono onnipotenti nell’atto di mettere a disposizione il loro utero. Una donna che vuole offrirlo, lo offra gratis e si rivolga a un’autorità morale informandosi sulle persone a cui donerà questa creatura. Questa è anche la posizione di Arci lesbica. Non venga, però, sventagliato come un diritto. È una possibilità e tale deve rimanere. C’è chi dice se non c’è un diritto ad avere figli allora come si giustifica il diritto a “non” avere figli? La legge 140 dà alle donne la possibilità di rinunciare alla maternità, a certe condizioni tra cui quella di abortire in ospedali pubblici. Non sancisce un diritto.

La questione resta morale e di civiltà. E qui incontriamo un altro punto su cui dobbiamo interrogarci: ed è l’idea di «non disponibile», che non vuol dire proibito. Non tutto è disponibile all’essere umano. Non è questione di tecnologia e non deve diventare questione di soldi, è una questione di misura interiore, è fondamentale che si accetti la corporeità vivente, il nostro essere corpo con le sue determinazioni.

(Corriere della Sera, 7 dicembre 2015)

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