di Renata Pisu
C’è qualcosa di immutabile e sconcertante nel disconoscimento cinese del privato nella sfera sociale e nella sfera del sentimenti. Non nella sfera della proprietà che quella ormai viene riconosciuta come forse davvero “privata” dopo che il socialismo ha assunto i “colori cinesi”, cioè è diventato capitalismo. Molti cinesi però ancora sono scettici, dicono “vedrai che da un giorno all’altro il partito metterà la mano anche sulle nostre fabbriche, le nostre case, la nostra terra”. Non si fidano. E le prime a non fidarsi sono le donne che del loro corpo non sono mai state proprietarie, nemmeno dei loro sentimenti, nemmeno di quello che si considera ovunque sotto il cielo come l’amore più puro, disinteressato, sublime: l’amore materno.
Prima che venisse adottata su scala nazionale la politica del figlio unico per coppia, il partito, tutore della pubblica morale, aveva lanciato negli anni Sessanta una vasta campagna ideologica per sradicare la concezione assai diffusa che l’amore materno non avesse connotazione di classe, che le madri proletarie e contadine amassero i loro bambini come le madri borghesi.
Non era così: opuscoli, storie a fumetti, addirittura opere teatrali e romanzi, svilivano il sentimento materno di quelle donne che consideravano nemiche di classe. E se la madre non apparteneva a una delle classi popolari impegnate nella costruzione del socialismo, cioè operai, contadini e soldati, anche il frutto del suo ventre era sin dal momento del concepimento nemico di classe. Questo perché, come è stato più volte ribadito durante la Rivoluzione culturale, “da uovo marcio nasce uovo marcio”, coloro che non potevano vantare origini di classe come si deve, venivano esclusi dalla scuola e dall’università, sottoposti alla gogna della loro comunità che non li considerava figli di mamma. Una mamma reazionaria non era una mamma. Sul libretto di identità di ogni cinese era obbligatorio che venisse menzionata la classe sociale di origine.
Mentre questa campagna si stava spegnendo, ecco che viene lanciata la politica del figlio unico per coppia e le prime coppie ad aderirvi furono quelle borghesi. Perché più istruite? Perché residenti in città? Perché più spaventate dal rigore delle sanzioni applicate in caso di disubbidienza? O perché ormai convinte di non poter amare un figlio di vero amore proletario? Chissà: comunque tra le masse popolari la politica di limitazione delle nascite ha avuto più difficoltà a imporsi ma, alla fine, ha trionfato con milioni e milioni di aborti, volontari o coatti: aborti dolorosi anche a gravidanza inoltrata, perpetrati su donne per lo più da altre donne, le ostetriche di villaggio, come si racconta in “Rane”, l’ultimo romanzo dello scrittore cinese Mo Yan, Premio Nobel per la letteratura. E in tutta questa tragedia, in queste storie atroci, in queste ripetute violenze, aspirazioni senza anestesia, allargamenti del collo dell’utero, forcipi infetti, piccoli crani schiacciati con le pinze, urla di dolore e torrenti di sangue, gli uomini restano sullo sfondo. I dolori che hanno subito e continueranno a subire le donne, perché l’abolizione della politica del figlio unico è prevista per il 2015, appena li sfiorano. Loro incarnano il Potere, loro non hanno mica l’utero.
Oggi però per la prima volta nella Cina moderna, comunista o meno che sia, sembra che le donne siano sul punto di rivendicare la loro intima proprietà privata, se non l’habeas
corpus totale, almeno quello del loro utero. Reggevano la Metà del Cielo, come si usava dire negli anni di Mao, ma del loro utero non erano padrone, come non lo erano dei loro sentimenti, nemmeno di amore materno. Riusciranno a vincere questa battaglia per abolire la proprietà pubblica dei corpi femminili? L’onta di severe multe per le ragazze madri il cui utero, diteci, a chi apparterrà mai? Se riusciranno in questa battaglia per l’unica cosa che forse vale davvero la pena di privatizzare, anche noi che da decenni diciamo inascoltate “l’utero è mio e me lo gestisco io” dovremo essere loro molto grate.
4 Giugno 2013
la Repubblica